C'era una volta a Novara una bella signora bionda, che gestiva ormai da sola la libreria più grande e attrezzata della città. La si vedeva di solito sulla soglia del suo bel negozio tutto tappezzato di libri, sempre con un saluto e un pronto sorriso per tutti coloro che le rivolgevano un saluto e un sorriso. Ed era veramente un piacere vederla e scambiare anche solo due parole oltre al buongiorno. Ma con coloro che le si mettevano di traverso, volutamente o per caso, quella bella si-gnora sapeva usare lingua e tutto ciò che era necessario per farli doverosamente a fette, ritornando poi serenamente a dispensare saluti e sorrisi dalla soglia del negozio di libri. Non che fosse litigiosa. Tutt'altro, ma su poche cose non transigeva mai: innanzi tutto sulla reputazione e sull'efficienza della sua libreria, poi su quelle dei suoi figlioli, ma specialmente sulla sacra memoria dell'Ottavio, il suo defunto marito. Ogni lettore novarese che abbia già superato la mezza età ha già prontamente compreso che stiamo parlando della ben nota signora Lazzarelli, della stimata Libreria Lazzarelli che ancor oggi espone scaffali e scaffali di libri sotto i portici del nostro venerando Teatro Coccia. Per gli amici e i conoscenti: la Matilde.
Matilde non era nata nel mondo dei libri. Tutt'altro. Vi entrò però da molto giovane e v'entrò letteralmente per amore. Un grande amore, di quelli di tanto tempo fa, che oggi non sono quasi più di moda. Comunque già allora la sua fu veramente una bella storia d'amore e vale la pena raccontarla. Era nata a Venezia, Matilde, ed infatti era bionda, spigliata e di forme piacevolmente floride, come di solito ci si aspetta da una bella ragazza veneta. I suoi genitori, Simone e Assunta Cangialosi, erano invece di Lercara Friddi, provincia di Palermo. Simone Cangialosi, che lavorava alle Ferrovie dello Stato, era stato mandato a Venezia verso la fine degli anni '20 e vi si era trasferito con la famigliola, prendendo casa nel rione di Santa Marta, vicino allo scalo marittimo. A Venezia erano poi nati gli ultimi dei suoi cinque figli, due maschi e tre femmine. Matilde, nata nel 1938, era stata l'ultima. Ormai stabilitisi a Venezia, Simone parlava un dignitoso italo-siculo ma Assuntina, che si era integrata con più facilità, parlava speditamente in una sua parlata siculo-veneta molto fiorita mentre i figlioli, inutile dirlo, parlavano puro dialetto veneziano, senza accento.
Passata la buriana della guerra, i ragazzi crebbero quindi tranquillamente a Venezia. Talvolta le vacanze le passavano da un vecchio amico di famiglia, Giovanni Rognoni, un collega delle Ferrovie del padre, che era divenuto così tanto di casa da venir da loro chiamato "zio". Il Rognoni, nativo di Novara, si era poi fatto trasferire nella sua città e così ogni tanto i ragazzi Cangialosi passavano l'intera estate a Novara, a casa degli "zii". Nessuno sa più il perché, ma verso il 1948 la piccola Matilde, ormai decenne, rimase a Novara anche dopo l'estate, per tutto l'anno infatti. Forse una malattia lì presa e durata un po' a lungo, forse per alleviare ai Cangialosi il peso di dover provvedere a cinque marmocchi, forse il desiderio degli zii Rognoni a tenersi in casa quella adorabile bionda bimbetta decenne... Nessuno può più spiegarcelo. Sta di fatto che dal quel momento Matilde incominciò a vivere a Novara con gli zii, che le fecero persino frequentare la locale Scuola di Avviamento Professionale, Indirizzo Commerciale. Naturalmente passava poi tutte le sue vacanze a Venezia, presso la famiglia, a cui era rimasta sempre affezionata.
A questo punto le notizie diventano un po' confuse e non è rimasto più nessuno che sappia dirci se Matilde, finita la scuola e ormai sedicenne, si fosse impiegata o fosse andata a lavorare come commessa in qualche negozio o altro. Sta di fatto che lei a Novara si era ormai perfettamente integrata. Gli zii Rognoni abitavano a sant'Andrea, uno dei quattro borghi operai della città, e Matilde divenne ben presto una di quelle belle e spigliate ragazze di borgata di cui a sant'Andrea andavano tutti particolarmente fieri. La si notava volentieri, bionda, attraente, disinvolta, spiritosa, di buona compagnia. Fu allora che cominciò pure lei a frequentare doverosamente "i Portici". Come in tutte le città italiane di provincia, infatti, anche a Novara esisteva da tempi quasi immemorabili il civico rito del passeggio serale. Tra le 6 e le 7 di ogni sera tutti coloro che a quell'ora non stavano lavorando e che non erano malati o in qualche modo impediti si ritrovavano con amici o conoscenti per una passeggiata lungo il centro della città. Il precorso era sempre lo stesso: dal "canton delle ore" per via Omar alla piazzetta delle Erbe e da lì lungo tutti i vecchi portici ottocenteschi, per poi voltarsi e tornare indietro appena prima di raggiungere l'odierna Borsa, i cui portici a quadrangolo allora non rientravano - non so perché - nella tradizione del passeggio. Si rifaceva quindi di nuovo lo stesso percorso di prima e si continuava giù lungo tutto corso Cavour fino alla chiesa del Monserrato. Appena prima di raggiungere piazza Cavour, però, tutti si voltavano un'altra volta e ritornavano passo dopo passo fino a percorrere i portici di prima, raggiungendo lo stesso punto dove voltarsi e ritornare ancora indietro. Questo per quattro o cinque volte, sempre a passi pacatamente lenti e chiacchierando, come si fa ai funerali di qualche conoscente poco noto. Si formava così un continuo biscione di gente che per metà andava in una direzione e per l'altra metà nell'altra, parlando del più e del meno, salutandosi, gettando qualche rapido sguardo alle vetrine, con qualche occhiate scambiate di sottecchi, in un continuo ronzio di conversazione generale.
Camminando, gli uomini chiacchieravano tra loro di calcio, di soldi, talvolta di politica, le signore di vestiti, di serve o di bambini, i ragazzi discutevano per lo più di sport, talora di scuola, ma soprattutto guardavano le ragazze commentando e ridacchiando, le ragazze in gruppo spettegolavano tra di loro tenendosi sottobraccio l'un l'altra e facendo sempre finta di non notare i ragazzi. V'erano poi dignitose coppie anziane che si salutavano ad ogni giro chinando un poco il capo con mezzi sorrisi di circostanza, per poi commentare a voce bassa senza voltarsi. V'erano novaresi di tutti i ceti e di ogni età sotto i portici a quell'ora, quindi si finiva per conoscersi tutti, almeno di vista. Appena passate le 7, però, come per miracolo il giro finiva e tutti andavano a casa loro per la cena. Durante i giorni feriali arrivava a fare il giro sotto i portici anche qualche gruppetto di giovani di borgata, che a quell'ora in genere non avevano impegni, mentre gli adulti dei quattro borghi, che durante la settimana invece lavoravano fino a tardi, venivano a passeggiare solo la domenica, portando tutta la famiglia. Così giorno dopo giorno, anno dopo anno. Era qualcosa di più di una tradizione cittadina, era quasi un dovere civico. A cui, da diverse generazioni, ben pochi novaresi si sottraevano. Sotto i portici, quindi, una ragazza giovane e fresca, piuttosto vivace e abbastanza disinvolta com'era Matilde, di certo non passava inosservata. Passeggiando sottobraccio con le amiche di sicuro avrà ogni tanto notato delle occhiate ch'erano ben più che apprezzamenti, qualche sguardo libertino che le arrivava pieno di appena velate allusioni, col nascosto sapore di carezze un po' audaci. Probabilmente lei pure si sarà talvolta sentita scivolare lungo la schiena certe segrete occhiate fugaci che si prendevano qualche libertà, anche se solo visiva. Insomma, tutto il repertorio che una bella ed esuberante diciottenne attirava come una calamita. Si era negli anni '50 e quello era il massimo che si poteva pubblicamente esprimere.
Ma un giorno sentì arrivare un'occhiata diversa. Erano giunte, lei e le amiche, quasi alla fine dei portici, giusto all'altezza del Teatro Coccia, poco prima della rituale svolta indietro dopo il primo giro. Non era il solito sguardo importuno e insinuante, quella volta. Era piuttosto un tenue tentativo di solletico leggero e galante, come in quei giochi sorridenti che si fanno talvolta gli innamorati tra loro, scherzando. Quel piacevole solletico che in novarese si usava allora chiamare il "glit". Cercò in giro con gli occhi e incontrò subito lo sguardo dell'uomo del negozietto di libri lì accanto, che accennò appena ad un lieve, rapido sorriso, voltandosi poi subito a servire un cliente. Alla passata seguente il sorriso durò un po' più a lungo, anche se Matilde non rispose. Durò così per parecchi giorni, con quell'uomo che le sorrideva ogni volta che passava davanti al suo negozietto tutto foderato di libri. Era un sorriso garbato, non invadente, sicuramente non ammiccante. Era solo il semplice sorriso di un uomo ancora piuttosto giovane, di bell'aspetto e tutto sommato un poco enigmatico.
Matilde si sarebbe aspettata a quel punto uno dei soliti complimenti, un tentativo di farsi avanti, di attaccar discorso. Ma tutte le volte che lei passava passeggiando con le amiche davanti al suo negozio il libraio le riservava solo quel suo sorriso tranquillo, gentile, in fondo un poco sentimentale. Non passò molto tempo che quei costanti, semplici sorrisi cominciarono prima ad incuriosirla, poi a stuzzicarla. Cosa mai voleva da lei quell'uomo? Fu allora che, a quanto pare, Matilde prese lei stessa l'iniziativa. Una sera si fermò di proposito, a guardare dei libri. Non che le interessassero veramente. Non aveva avuto un'educazione letteraria, a dire il vero, e di solito leggeva ben poco. Ma voleva sapere qualcosa di più: tutti quegli sguardi persistenti, quei sorrisi lievi lievi... Il libraio, molto cortesemente le si avvicinò subito chiedendo se desiderava qualcosa in particolare. No, Matilde voleva solo dare un'occhiata, nulla di speciale. Lui allora le sorrise e senza aggiunger altro si ritirò lasciandola libera di guardare a suo piacere, salutandola poi educatamente quando lei se ne andò via senza acquistare nulla.
Qualche giorno dopo, però, acquistò davvero un libro. Anzi, gli chiese un consiglio su cosa scegliere. Le fu proposto un romanzo di Alba de Cespedes. Non che lui l'avesse letto, aveva detto, ma era un libro piuttosto richiesto e tutti ne parlavano bene. Lo poteva consigliare. Non si parlò d'altro e lui fu molto simpatico e cordiale, ma sempre urbanamente contenuto. Le diede del 'lei', chiamandola 'signorina' e con un sorriso che le parve davvero sincero le augurò di ritornare ancora. Tutto qui. Il libro le piacque. In più era stata davvero trattata con cortesia e con riguardo, da persona adulta. E ciò le aveva fatto ancor più piacere. Quindi dopo un certo tempo Matilde ritornò. Due o tre volte in tutto, non di più. Un altro libro fu acquistato, ci si scambiò qualche frase. Ormai il ghiaccio era rotto e quando nelle sue passeggiate quotidiane sotto i portici lei passava davanti al negozietto dei libri il saluto era reciproco e simpaticamente cordiale da parte di entrambi. Per lei quella era ormai diventata una conoscenza interessante, con quel pizzico di classe che sembrava ispirarle, perfino con un tenue sentore di quasi-cultura che in fondo le piaceva. Una conoscenza da poter sfoggiare, come piccola vanità, davanti alle altre ragazze del borgo di s.Andrea. Ma era solo una normale, banalissima conoscenza, neppure una simpatia, anche se poi erano anche arrivati a scambiarsi i nomi. Aveva così saputo che lui si chiamava Ottavio, un nome non usuale e piuttosto interessante. Ma non erano entrati in altri particolari e si parlavano dandosi ancora del 'lei'.
Poi un giorno si incontrarono anche fuori. Era una domenica pomeriggio e Matilde era andata a ballare con la sua solita compagnia ai "Mutilati". Nonostante quel nome truculento, si trattava della sala da ballo allora più popolare a Novara, nel salone dell'Opera Reduci e Mutilati, una struttura sorta in città dopo la Grande Guerra. Sotto il Fascismo era stata poi utilizzata sempre più come una sorta di dopolavoro. Nel secondo dopoguerra veniva invece utilizzata solamente per il suo grande salone, dove il sabato sera e la domenica pomeriggio si ballava, con qualche orchestrina locale o all'occorrenza con musica registrata. In estate si ballava all'aperto, sotto i grandi vecchi platani del vasto giardino sul retro. I Mutilati erano piuttosto popolari, perché costavano relativamente poco e vi si poteva incontrare un mucchio di gente, giovani e non giovani, per lo più delle classi medio-basse, ma tutta gente per bene. I figli dei ricchi ballavano invece tra di loro al Club Unione, nei bei saloni del Teatro Coccia.
Appena attaccarono a suonare, ecco che dal un angolo del salone apparve l'Ottavio, che venne direttamente a chiedere a Matilde di ballare. Il primo ballo era una piacevole samba leggera, in cui i ballerini si muovevano abbastanza staccati. Ma il secondo era un magnifico lento, di quelli da ballare guancia a guancia. Fu a quel punto che Matilde s'accorse che Ottavio l'amava davvero, con grande, intensa, pulsante passione. Alzò allora lo sguardo per fissarlo direttamente in viso e capì che era vero, assolutamente vero. Non c'era neppure bisogno di parole. Sentì allora una vampata improvvisa, che scatenò dentro di lei un vero incendio di intense fiammate brulicanti, insostenibili, magnifiche, emozionanti. Per un istante ne fu travolta e frastornata, quasi da vacillare, ma poi si sentì trasportata in un vortice meraviglioso, straordinariamente intenso, e si ritrovò a ballare, solo lei e l'Ottavio, occhi fissi negli occhi, sopra le cime dei platani, in compagnia del cielo azzurro. La giovane Matilde aveva appena trovato l'Amore, quello Vero. Ballarono insieme per tutto il pomeriggio, tutti i balli, senza neppure accorgersene. E da quel pomeriggio cominciarono a frequentarsi. Sempre di più, sempre di più.
Ma chi era in verità l'Ottavio? Qui dobbiamo iniziare un'altra storia, ben più complicata, che comincia da ben più lontano. Di cognome faceva Lazzarelli ed apparteneva quindi a una delle storiche famiglie dei famosi librai pontremolesi. Per chi non lo sapesse, nei tempi andati i montanari dell'alta Lunigiana, specialmente nelle valli sopra Pontremoli, terre oltremodo misere e avare, per riuscire a sbarcare il lunario migravano stagionalmente andando per le ricche provincie dell'alta Italia come merciai ambulanti. Vendevano un po' di tutto a dire il vero, in particolare quelle speciali pietre che allora servivano per affilare coltelli, rasoi, persino le falci. I montanari di una di quelle valli, la più più isolata e più miserevole, quella che da Mulazzo sale fino a Montereggio - terre già dei Malaspina, ma che poi, insieme al valico della Cisa, erano venute sotto il dominio dei Duchi di Parma - si erano specializzati ancora di più. Girando con le loro gerle per le campagne lombarde, piemontesi o romagnole smerciavano ai contadini, oltre a quelle pietra per affilare, anche degli almanacchi agricoli e dei lunari, che erano così necessari ai lavori dei campi e che i villici, anche i più analfabeti, compravano volentieri. In più offrivano pure delle immagini sacre, qualche libro di preghiere per i parroci, calendari e altre stampe, tutte cose di cui andavano a rifornirsi presso le botteghe di stampatori a Parma e nelle città vicine. Col periodo napoleonico, quando un poco più di istruzione s'era diffusa sia nelle città che nelle campagne, puntarono sempre di più sulla carta stampata e cominciarono a offrire in giro anche libri di lettura e manuali per le varie professioni. A quei tempi anche in città non v'erano ancora negozi che vendevano esclusivamente libri. Di solito, come i giornali di allora, i libri venivano ancora venduti direttamente dai tipografi che li stampavano e in ogni città, grande o piccola, già dal '700 operava ormai più d'una tipografia. Il primo vero negozio di libraio fu aperto da un francese a Genova solo nel 1810 e per molti anni rappresentò una vera novità.
I più ingegnosi tra i montereggini già a metà dell'800 cominciarono ad acquistare a poco prezzo dai tipografi i fondi di magazzino e i libri invenduti, che poi andava a smerciare sia per le campagne che nelle altre città. Giravano da una fiera all'altra e non si perdevano una festa patronale per tutta l'Italia centro-settentrionale. Evitarono però di andare più a sud, da Roma in giù, forse perché troppo lontano o perché nel Mezzogiorno il mercato non era ancora sufficientemente maturo. Montavano le loro bancarelle di libri nelle piazze o sotto i portici delle città, oppure sui sagrati delle chiese di paese. Offrivano i libri allora più popolari, quelli che andavano per la maggiore, i Reali di Francia, le vite dei santi, il Guerin Meschino, il Bertoldo, i primi romanzi d'appendice, ma anche la Divina Commedia, l'Orlando Furioso, il Principe del Macchiavelli, i romanzi francesi, libri di viaggi... Girando da zona a zona, sapevano anche procurare, se era possibile, libri più specifici non sempre disponibili da una città all'altra, come manuali di agrimensura, libri di storia, testi di legge o di medicina, dizionari. Sapevano anche procacciare, con le dovute cautele, libri allora proibiti, come testi mazziniani o dei primi socialisti e, sottobanco, anche libri un po' erotici, quelli di allora naturalmente, che oggi farebbero ridere.
Ma anche i più intraprendenti tra loro erano in fondo rimasti dei montanari analfabeti, che i libri non li sapevano neppure leggere. Eppure sapevano venderli egregiamente, indovinando quasi a fiuto quali proporre, come proporli, come farli accettare. Qualità puramente innate, oppure raffinate da decenni e decenni di esperienza, di intuito e di perspicacia trasmesse da padre in figlio. Venivano da paesi piccolissimi oltre che poverissimi, allora di non più di 3 o 400 persone: Mulazzo, Montereggio, Parana, Catizzola, paesi dove tutti erano praticamente imparentati con tutti gli altri. Quindi lavoravano come vere e proprie cooperative familiari, suddividendosi i campi d'azione tra fratelli, cugini, zii e cognati e dandosi una mano uno all'altro quando necessario. Tutti loro, a fine stagione smontavano le loro bancarelle e tornavano al paese, dove restavano a mangiare castagne e formaggio - non v'era altro - fino alla primavera successiva, quando migravano come i rondoni, ognuno verso la sua zona da battere: i Bertoni nel Piacentino e a Parma, i Tarantola verso Milano e la Brianza, I Fogola nel Torinese, i Ghelfi verso il Veneto, i Giovannacci nel Biellese, altri Tarantola nel Friuli, altri Fogola fin verso le Marche, alcuni dei Maucci persino in Francia, e così via, girando per paesi e città, facendosi ogni fiera, ogni mercato.
Com'era da aspettarsi, già all'inizio del '900 questi librai itineranti cominciarono a stabilirsi qua e là. Scelsero una città e vi piantarono un banchetto fisso, si fecero dei clienti. Alcuni aprirono pure delle bottegucce, le prime librerie, e affittarono una casa per portare giù la famiglia ad aiutarli. Cercarono sempre di aprire nel centro cittadino, non nelle periferie, perché erano i borghesi e i professionisti quelli che di solito compravano i loro libri. Possibilmente scelsero di aprire sotto i portici, per poter esporre scaffali di libri anche fuori dal negozio, al riparo dalle intemperie. Inoltre sotto i portici, da che mondo è mondo, c'è sempre più traffico e qualcuno si ferma sempre a curiosare tra i libri esposti. Se gli affari andavano bene, mandavano i figli ad aprire altre botteghe di libri in altre città. Gradualmente si formava così una grande ragnatela di relazioni familiari che copriva quasi tutte le provincie del centro-nord. Si tenevano tutti continuamente in contatto, si scambiavano i libri, si sposavano quasi sempre tra di loro. Specialmente si aiutavano sempre l'un l'altro, perché non tutti facevano fortuna e gli inizi erano sempre duri. Non era proprio una società di mutuo soccorso, quella loro rete capillare, e sicuramente non una struttura rigidamente organizzata, con un apparato di capi, sottocapi, capibastone come in altre realtà. Si aiutavano l'un l'altro per buon senso, non per dovere. Acrimonie e dissapori erano inevitabili tra cugini, tra cognati, tra sorelle, ma in genere prevalevano sempre i legami famigliari e gli interessi di bottega. Conveniva a tutti, in fondo.
Quasi tutti erano ardenti repubblicani, avevano quella passione nel sangue. Né i marchesi Malaspina, né il Ducato di Parma, né Maria Luigia erano mai riusciti a domarli del tutto, quei montanari ostinati e tenaci come macigni. Non per nulla discendevano da quelle dure genti Liguri che gli antichi Romani avevano assoggettato con infinite difficoltà solo dopo due secoli di scontri e resistenze. Non per nulla l'unico imperatore, la cui famiglia proveniva in parte da quelle genti, si chiamava Pertinace (fu poi fatto fuori da un intrigante milanese, Didio Giuliano). Tuttavia, nonostante l'innato spirito libertario che avevano succhiato col latte materno, questi librai frugali, previdenti, accaniti nel lavoro, si trovarono bene e prosperarono sotto lo stato liberale di allora. Alcuni, come un Rinfreschi, due Tarantola, un Ghelfi e un Bertoni, in società, si erano persino riciclati come piccoli editori a Piacenza, per stampare a minor costo i libri che più vendevano sulle loro bancarelle. Durante il ventennio fascista, invece, si astennero per lo più dal far politica. Badarono solo a vender libri, a farsi dei buoni clienti e ci riuscirono egregiamente. Alcuni meglio di altri, è ovvio, ma in genere sia quelli che tenevano ancora la bancarella, che quelli che avevano aperto già le loro librerie non si poterono proprio lamentare. Col boom economico del dopoguerra quasi tutti si erano espansi e alcuni si erano anche arricchiti. Erano fortune relativamente modeste, ma significative rispetto alla nera miseria da cui erano partiti i loro vecchi. Tutti, comunque, almeno una volta all'anno tornavano al loro paese d'origine, con cui non avevano mai tagliato i legami. Erano le loro radici, ciò in cui più si riconoscevano. A Montereggio, a Parana vollero sempre mantenere in piedi e in buon stato la vecchia casa di famiglia, anche se ormai vivevano a Milano, a Bologna, a Padova, a Torino, ad Ancona, dispersi un po' qui e un po' la.
I Lazzarelli erano anche loro di Montereggio. Al contrario di altri, non erano una famiglia numerosa e non proprio delle più floride. Nei primi anni del '900, Antonio Lazzarelli era ancora un ancor giovane ambulante che partiva ogni primavera dal paese e si spostava con il suo banchetto di libri tra piazze e sagrati in Lombardia e Piemonte. Sarà lui il padre dell'Ottavio. E quel suo figliolo, quando nascerà nel 1921, sarà il risultato di una vicenda abbastanza insolita. Anche qui, infatti, si parte da una storia d'amore, una vecchia storia d'amore. Andò così: il giovane Antonio aveva messo gli occhi su di una ragazza che gli piaceva. Era una Maucci, di quelli che andavano a vender libri fino in Francia. Infatti Maria Maucci in Francia era persino nata, a Gap, nell'alta Provenza, appena al di là delle Alpi. Cominciarono a frequentarsi durante gli inverni che entrambe le famiglie passavano a Montereggio. Si volevano bene e pensavano già a sposarsi. Ma all'improvviso la famiglia di lui decise diversamente. Come molti altri ambulanti, anche i Lazzarelli compravano molti dei libri a credito all'inizio di ogni stagione, per poi onorare i loro impegni quando ritornavano, con i guadagni dell'annata.
Uno dei piccoli editori locali che facevano loro credito era Giulio Bertoni a Parma, lui pure originario di Montereggio e di famiglia di itineranti librai lui pure. Era stato uno dei cinque intraprendenti montereggini che nel 1908 avevano provato a far stampare per conto loro a Piacenza i libri più popolari, di quegli autori che vendevano di più, iniziando di fatto una loro minuscola casa editrice. Poi il Bertoni si era messo in proprio a Parma ed era diventato benestante. Quando i Lazzarelli, che probabilmente erano parecchio esposti con lui, si videro proporre un matrimonio tra il loro giovanotto e una delle figlie del Bertoni (nessuno più ne conosce i veri retroscena) ci videro un affare e accettarono di buon grado. Chi probabilmente non ne fu affatto felice fu il povero Antonio, che si sentiva già "fidanzato" con la sua amata. Ma in quei tempi - siamo infatti all'inizio del '900 - i figli obbedivano sul serio e alla fine il giovane, anche se probabilmente col cuore infranto, sposò Maria Bertoni. L'altro cuore infranto, Maria Maucci, poco dopo fu fatta sposare dai suoi a un altro giovane ambulante, Giulio Giovannacci, che con la sua famiglia faceva abitualmente la stagione nel Biellese e nel Novarese.
Maria Bertoni fece appena in tempo a dare due figli ad Antonio, uno dopo l'altro, poi morì. Il maschio fu chiamato Giulio, come il nonno materno, la bambina Adalgisa. Qualche tempo dopo morì pure improvvisamente, nel fiore dell'età, anche Giulio Giovannacci, lasciando la giovane Maria con due bambini ancor piccoli. A quanto pare, Antonio e Maria si volevano ancora bene e così alla fine si sposarono, unendo i loro rispettivi figli in una nuova famiglia. Si misero inoltre a lavorare insieme su di un territorio che lei già copriva col suo primo marito, cioè tutto il Novarese e il basso Vercellese, mentre a Biella rimaneva il vecchio Giovannacci, che già vi aveva aperto una sua libreria, col tempo famosa. Erano gli anni della Grande Guerra e gli inizi furono difficili. Poi, quando con la pace le cose cominciarono ad andar meglio, all'improvviso fecero un figlio loro, l'Ottavio appunto (il nome era piuttosto comune a Montereggio, si diceva in omaggio all'antico marchese Ottavio Malaspina, ramo Spino Secco, anche se forse non era vero). Ormai al paese tornavano solo una o due volte all'anno, per la festa patronale e per il Natale. Col bambino piccolo, figlio della mezza età per entrambi, decisero allora di stabilirsi definitivamente a Novara, dove il giovane Giulio, il figlio di primo letto di Antonio, già operava da qualche tempo. Antonio chiese perciò formalmente al Comune di Novara poter tenere in piazza un banco fisso per la vendita di libri, che gli fu concesso a partire dal 1923. Novara era inoltre comoda come base per poter girare sul territorio e inoltre in città non v'erano ancora altre librerie. Ci volle del tempo, ma riuscirono gradualmente ad attirare una certa clientela fissa al loro banco.
Ben presto poterono anche loro aprire una botteguccia di libri, un minuscolo locale sotto i portici, accanto all'entrata dell'allora cinema Vittoria, proprio dirimpetto alla grande statua di Carlo Emanuele di Savoia, che i novaresi benignamente chiamano "il Sancarlone". La posizione era buona ed era stata oculatamente scelta. Con l'inizio degli anni '30 sia Giulio, il figlio maggiore, che sua sorella, l'Adalgisa, si erano sposati, stranamente rompendo entrambi la tradizione dei librai montereggini. Infatti, sia la Felicina, la moglie di Giulio, che lui chiamava invece Filippa non si sa il perché, che il marito dell'Adalgisa, il Pinìn (Giuseppe) Ruffina che poi farà il tassista, erano novaresi ben lontani dal mondo dei librai. Nel frattempo anche i figli che Maria aveva avuto da Giulio Giovannazzi erano cresciuti ed erano tornati a Biella, a lavorare nella avviata libreria dei nonni.
Sposandosi, Giulio si era staccato aprendo lui pure sempre a Novara un suo piccolo negozio di libri, in quel piccolo spiazzo che c'è all'inizio dell'allora corso Umberto (oggi corso Italia). Non era affatto in cattivi rapporti col padre e la matrigna, ma ormai voleva essere indipendente. Di solito i librai montereggini tendevano a mandare i figli ad aprire librerie in altre città, ampliando così la loro rete d'attività. Giulio Lazzarelli volle invece restare a Novara anche lui e non se ne sa più il perché. Era una decisione piuttosto strana, a dire il vero, perché Novara non era una città grande abbastanza da potervi duplicare la libreria. Era un po’ eccentrico, Giulio, con una certa tendenza a far l'uomo di cultura a cui però piace viver bene, elegantemente. La sua libreria non decollerà mai del tutto, infatti. Antonio Lazzarelli, purtroppo, non stava sempre bene e spesso si fermava a Montereggio. L'ormai vecchia Maria, invece, con l'Ottavio ancora troppo giovane per poterle dare un aiuto adeguato continuava a lavorare sodo da sola a Novara, sempre più risoluta e tenace. In fondo i suoi libri vendevano bene, la posizione sotto i portici del passeggio cittadino era molto buona, si era ormai fatta una clientela affezionata, su cui contare.
Ma le difficoltà erano sempre tante. Non ultima l'apertura verso la seconda metà degli anni '30 di una grande e prestigiosa libreria proprio vicino all'Angolo delle Ore, che è il vero centro della città, da parte dell'Istituto deAgostini, allora in prestigiosa ascesa. Era un ampio negozio, di carattere decisamente moderno, con i libri tutti ben custoditi nei loro alti scaffali, che commesse eleganti e cortesi andavano personalmente a prelevare per conto del cliente, offrendo pure consigli sulla lettura. Come poteva competere con loro un antico montanaro della Lunigiana insieme alla sua signora, una donna un po' dimessa, con quei suoi vestiti vecchiotti e sempre in nero, costantemente con un occhio che teneva sotto controllo quei clienti un po' troppo lesti di mano. I libri, loro, li sapevano anche vendere ma spesso non sapevano neppure di cosa parlassero, perché non era neppure pensabile che se li leggessero pure. Come poteva, quindi, quella coppia di ex-bancarellai competere con un nuovissimo, splendente negozio moderno che irradiava così tanta distinzione e afflato culturale da incutere rispetto e soggezione anche a coloro che solamente passavano davanti alle sue vetrine. Eppure quei due ce la fecero.
Usarono proprio le vecchie, astute strategie da bancarella. Offrire, cioé, sconti frequenti e abbondanti dove era possibile, per crearsi una clientela affezionata e dipendente, concedere credito a quei lettori accaniti ma con relativamente pochi soldi in tasca, come impiegati, insegnanti, preti, studenti, artigiani, tutti appassionati lettori che sarebbero sempre tornati. In più, completa libertà per i clienti di sfogliare i libri, persino di leggerne capitoli interi. L'entrata nella libreria era infatti completamente libera e non impegnativa, anche per chi voleva solo dare un'occhiata, vedere cosa c'era di nuovo, senza alcun obbligo di comprare. Erano comunque benvenuti. Il tutto molto alla buona. In tal modo si cercava di attirare anche il cliente più impacciato ed eliminare ogni possibile soggezione. Proprio per queste ragioni venne completamente eliminata la vetrina del negozio, rendendolo completamente aperto ed accessibile ai passanti e ai curiosi. Diventava, in pratica, una grossa bancarella al coperto, con completa libertà di guardare in giro, di sfogliare, di leggiucchiare qui e là, senza impegno. Oggi sembrerebbe un principio terribilmente ovvio. Quasi un secolo fa era qualcosa di insolito e davvero innovativo. Come una ventata di aria fresca.
Qualcosa infatti stava cambiando. Era successo che il giovanissimo Ottavio, appena finita la scuola dell'obbligo era subito entrato in bottega a tempo pieno per aiutare gli anziani genitori. Anche se aveva qualche grillo per la testa, data l'età, se lo fece passare rapidamente. Imparò in fretta il mestiere, per necessità, e si buttò a corpo morto nel lavoro. Possedeva già una discreta parlantina e nonostante gli inevitabili errori iniziali velocemente cominciò pure lui a riconoscere subito, a fiuto, sia i libri buoni da vendere che i clienti buoni da coltivare. Probabilmente ce l'aveva nel sangue. E aveva pure qualche idea nuova in testa. Aveva solo bisogno di crescere. Tutto quindi stava andando abbastanza bene, quando purtroppo scoppiò la guerra.
Ottavio compiva vent'anni nel 1941, proprio quando stava organizzando le sue divisioni da inviare sul fronte russo. Ovviamente il ragazzo fu preso dal panico. Doveva trovare una soluzione, una qualsiasi, ma non era facile, anzi... Nonostante sua madre, la vecchia, indefessa Maria, bussasse freneticamente ad ogni possibile porta riempiendo ogni possibile tasca, Ottavio venne richiamato. Appena arrivato in caserma prese tuttavia una decisione drastica, estremamente rischiosa. Si mise di nascosto a mangiare tabacco, sterco di mulo, ogni altra porcheria possibile (questo almeno era ciò che lui raccontava in seguito, anche se è tutto da verificare) finché, avvelenatosi sul serio, fu alla fine ricoverato in ospedale e dopo qualche tempo inaspettatamente congedato. Sta di fatto che riuscì a non partire per la Russia, salvandosi probabilmente la pelle.
Per un po' di tempo dovette comunque tenere un profilo basso. Sapeva di essere in qualche modo sorvegliato, anche perché la sua piccola libreria stava gradualmente diventando una specie di ritrovo istintivo per quelle persone sempre più critiche e scontente man mano che la situazione del Paese si deteriorava. Non era certo un covo di antifascisti e tantomeno una cellula di comunisti, o cose del genere. Era piuttosto un posto dove, oltre a sfogliar libri liberamente e guardar copertine per vedere le novità, si poteva anche un poco lasciarsi andare a "mugugnare", sottovoce naturalmente, dando sfogo alle proprie crescenti preoccupazioni. Proprio per questo nell'ottobre del '43, con l'arrivo in città dei tedeschi e dei repubblichini di Salò, l'ancor giovane Ottavio capì subito che era meglio sparire rapidamente. Come molti altri scappò lui pure in Valsesia, dove si erano già formate le prime brigate partigiane. Per sua stessa ammissione, Ottavio non prese però mai in mano un'arma né partecipò a combattimenti. Comunque sia, quando riapparve a Novara dopo il 25 aprile del 1945, poteva ormai contare su alcune apprezzabili conoscenze personali, persino con Cino Moscatelli, il ben noto comandante delle formazioni partigiane della Valsesia. Il che dimostra che tutto può diventar utile in questo mondo, anche il non fare la guerra.
Dopo di che, il dopoguerra dilagò all'improvviso anche a Novara, con tutti che si diedero da fare per riprendere in qualche modo la vita di prima. Con la madre ormai anziana, fu Ottavio a prendere in mano la situazione della loro bottega di libraio. Tutto andò bene. Lavorava sodo, con l'entusiasmo dell'età. Aveva infatti 25 anni e ormai era una persona abbastanza conosciuta in città, con buoni contatti tra la nuova classe dirigente novarese. In montagna aveva stretto amicizia con l'allora famoso partigiano Fulmine, un certo Serafino B...., un tipo un po' guascone di Lumellogno, che gli aveva un giorno raccontato di una sua recente avventura semi-sentimentale.
Negli ultimi giorni prima della liberazione di Novara, v'era stata una sparatoria notturna con gli ultimi irriducibili fascisti dalle parti del Gazurlo, l'antica cascina appena al di là del ponte sull'Agogna. Fulmine si era salvato saltando il muro dell'orto della Madonna del Bosco, la chiesetta tanto cara ai novaresi proprio al di qua del ponte sull'Agogna. Il custode della chiesa, che l'aveva nascosto e poi fatto scappare, aveva una bella figliola e il Fulmine, improvvisamente timido, avrebbe ora voluto andare a trovarla. Chiese all'amico di accompagnarlo, con il risultato che la bella Rosanna cominciò ad uscire con l'Ottavio. Un anno dopo erano sposati. Anche questo fu un matrimonio fuori dalla cerchia dei librai pontremolesi, rompendo così la tradizione di Montereggio. Infatti Pietro Ferri, detto Pidrìn, che oltre ad essere il custode della Madonna del Bosco era pure uno stimato calzolaio, era infatti un novarese purosangue. Altrettanto era sua moglie, Clementina. Ma il matrimonio riuscì bene lo stesso.
La piccola Paola nacque nel '48, in un periodo in cui Ottavio stava sempre più consolidando il primato della sua libreria in città. Si era ormai fatto un nome, aveva un'ottima clientela e un giro d'affari tutt'altro che trascurabile, tanto che anche le grandi case editrici di allora cominciarono a trattarlo con sempre maggior considerazione, come il più importante ormai sulla piazza di Novara. Intelligentemente non cercò di schierarsi, di diventare una libreria di partito, come molti altri fecero in tante città. Mantenne buoni rapporti con tutti, persino con l'ambiente religioso, anche per la vicinanza del complesso della Cattedrale, che in fondo gli portava qualche buon cliente in libreria. Da buon venditore Ottavio, che ormai si stava inesorabilmente affacciando alla trentina, iniziò proprio in quel periodo a perfezionare quella sua personale tecnica di persuasione che lo caratterizzerà anche negli anni a venire.
Era infatti un uomo che, a quanto io ricordo, sapeva letteralmente parlare facendo le fusa. Era piuttosto difficile resistergli e aveva imparato ad avvolgere gradualmente i suoi clienti in un alone di affabile amicizia, anche coloro che vedeva per la prima volta, anche quei semplici passanti che s'erano fermati a gettare una occhiata rapida su qualche copertina particolarmente colorata. Senza mai apparire indiscreto o invadente, persino mostrando un filo di timidezza, poteva avvincere anche un improbabile compratore parlandogli con sincera passione di come avrebbe potuto procurare un libro che proprio faceva al caso suo. Non parlava quasi mai del contenuto del libro quanto di come l'avrebbe procacciato. Tutto lì. Ma già così sapeva conquistare le persone, garbatamente, con un certo suo stile. E non sgarrava mai nel procurare un libro. Davvero un ottimo libraio. inoltre, anche se non era più il bel giovanottone di prima, era ancora discretamente di bell'aspetto, il che non guasta mai, con una piacevole faccia aperta, una chioma leonina di capelli nerissimi e dei bei denti che nel suoi frequenti sorrisi semplicemente splendevano.
Il 1952 fu l'anno in cui i librai pontremolesi fondarono il Premio Bancarella. Non aveva un intento propriamente culturale, ma piuttosto commerciale; avrebbe infatti premiato ogni anno quel libro che, a insindacabile giudizio dei librai e dei bancarellai, sarebbe stato giudicato il più popolare, quello che avrebbe realizzato più vendite in quell'anno. Ovviamente anche i Lazzarelli di Novara furono della partita, sia Giulio che Ottavio, ed entrambi, oltre a votare, parteciparono sempre all'assegnazione annuale del premio che, come vedremo, aveva luogo a Pontremoli, come pure alla grande festa-raduno al paese natale, Montereggio. Il primo dei premi Bancarella venne dato nel 1953 ad un libro allora davvero popolare, cioè Il vecchio e il mare di Hemingway, edito da Mondadori, che vide le sua vendite aumentare ancora di più (da notare che il loro premio arrivò ancor prima del Nobel, che fu conferito a Hemingway nel 1954),
A quanto pare il pubblico comprava volentieri su indicazione dei propri librai, probabilmente persuaso che avessero un fiuto speciale nell'individuare buoni libri, un fiuto più acuto di quello degli squali per il sangue. Ma ancor più ne furono persuasi gli editori, piccoli e grandi, che da quel momento cominciarono a considerare quel premio molto, molto seriamente. Infatti da allora non mancarono mai d'esser presenti alle successive edizioni del Premio a Pontremoli, come pure alla festa che i librai offrivano la sera prima a Montereggio, con sontuosi buffet che avevano il dono di metter la gente di buonumore. Così si facevano affari.
Il '53 fu inoltre per Ottavio l'anno della nascita di un altro figlio, Marco, seguito poco dopo da un vero disastro, la morte tragica e improvvisa della giovane moglie, Rosanna. Il colpo fu forte e profondo. Di sicuro fu doloroso. Veniva inoltre lasciato con una figlia di appena cinque anni e un bambino ancora in fasce e si trovò a doversi confrontare duramente con la realtà. La libreria richiedeva infatti la sua continua presenza fisica. Sua madre, la vecchia Maria, ormai quasi ottantenne, con quei suoi occhietti aguzzi poteva ancora far atto di presenza nel negozio ma, anche volendo, non avrebbe più potuto prendere completamente in mano la situazione, con dei bambini così piccoli. Furono allora i suoceri, il Pidrin e la nonna Clementina, due personaggi veramente limpidi e umani, a farsi avanti. Presero con loro i due orfanelli, che infatti per i primi anni crebbero nella casetta con l'orto addossata alla Madonna del Bosco. Almeno fino a quando non cominciarono ad andare a scuola, prima Paola, poi a suo tempo anche il piccolo Marco. Le scuole si trovavano infatti solo in città, mentre la Madonna del Bosco allora era ben fuori, tra i campi e i boschi lungo l'Agogna. Un posto bello ma scomodo, perché in quegli anni non vi arrivavano ancora i primi autobus cittadini.
Ma anche con i figli vicino, l'Ottavio era solo. La sua giovanile esuberanza di prima non era spenta, ma di certo non l'aiutava. Lavorava sodo, faceva tutto ciò che doveva esser fatto, nel negozio, in famiglia, tra amici, ma tutto finiva col sembrargli piuttosto freddo, impalpabilmente gelido come quell'aria che scivola fuori da sotterranei e fa rabbrividire. Cominciava a sentirsi vecchio, anche se era ancora nella trentina. Passarono così alcuni anni, quattro o cinque, tutti piuttosto opachi. Dal suo negozio guardava ogni sera tutti quei gruppi di persone che passeggiavano avanti e indietro sotto i portici, gli amici in compagnia, le coppie sottobraccio, tutta quella gente, quel continuo ronzio di voci che parlavano, parlavano... Lui scambiava saluti, serviva clienti, rimetteva a posto i libri, sempre con quell'indefinibile senso di vuoto, di sottile angoscia interiore, che da l'intenso desiderio di riavere un po' della vita di prima. Poi un giorno ci fu quell'improvviso, inaspettato incrociarsi di sguardi. Non era sicuramente la prima volta che incrociava uno sguardo, tutt'altro. Ma quella volta fu speciale. E lo colse di sorpresa.
L'amore è quasi sempre involontario, si sa. Infatti Ottavio, che doveva aver iniziato per un senso quasi di curiosità, probabilmente per una certa qual attrattiva naturale, poi forse per genuina simpatia. rimase quasi sconvolto scoprendo fino a che punto si stesse affezionando a quella ragazza in fondo a lui sconosciuta. Ma era una di quelle cose per le quali avrebbe dovuto trovare la risposta da solo. Per sua fortuna, l'innegabile, intimo dolore per la tragedia di qualche anno prima non l'aveva inasprito. L'aveva invece sotto molti aspetti maturato e in un certo qual modo ne aveva persino chiarificato e stabilizzato il carattere. Fu così che quel suo nuovo interesse per la ragazza finì col colmargli il cuore e col lavargli via l'amarezza dagli occhi. Sempre più si accorse che nessun altro poteva essergli utile, ma lei... lei gli era ormai indispensabile. Non riusciva a fare a meno di pensarci, aspettava di poter rivedere ogni sera quel suo piccolo mento capriccioso, quel suo biondo sorriso così dolce e allegro, che sapeva di albicocche, di rose, di sole. Non gli restò altro che accettare la sfida e così si buttò.
Matilde da parte sua era pure lei coinvolta in un analogo turbine di emozioni altrettanto forti. Tra le molte porte per le quali nell'animo femminile entra l'amore, la commozione è tra le più ampie e inconsciamente ci si sente spesso portate a incarnare il ruolo dell'angelo consolatore. Quindi, quando le si aprì davanti agli occhi tutta l'intima storia dell'Ottavio e della sua personale tragedia, ne era rimasta così turbata e intenerita, così profondamente coinvolta da sentire tutta se stessa innalzarsi accanto a lui, le braccia tese, le ali spalancate. Per sua fortuna, oltre al fiducioso candore e alla bonomia della sua anima, una delle sue attrattive maggiori era la sua enorme gioia di vivere, il suo carattere vivace e, data l'età, sentimentale. Pertanto questo suo nuovo, improvviso trasporto per quell'uomo non si bloccò in un chiuso e consolante rapporto protettivo, ma fiorì in un caldo, terso amore, limpido come un cielo di primavera e florido di grande entusiasmo biologico. Nell'eccitazione della scoperta, era ormai certa di essersene innamorata perché ormai vedeva tutto sotto una luce diversa. Così lei pure, scossa fin nel profondo della sua giovane anima, accettò con passione la sfida. E tutte le sue paure scivolarono via come la bruma che se ne va al levar del sole.
Ovviamente la vita da allora cambiò per entrambi. Nei loro momenti più personali potevano anche passeggiare per campi di stelle, ma la vita di tutti i giorni aveva pure ben precise esigenze. Naturalmente in quegli anni era impensabile mettersi insieme, vivere in coppia, a meno di convolare a giuste nozze. Era un passaggio obbligato per quei tempi. Si decisero quindi per il matrimonio, che entrambi ormai percepivano come un sfida entusiasmante. La differenza d'età - si trattava di ben 17 anni - e la presenza di orfani così giovani da allevare e accudire da parte di una ancora ignara diciannovenne alle prime armi avrebbero fatto ben più che inarcare qualche sopracciglio in famiglia. Sconcertati più che sgomenti, gli zii di Novara e la fa-miglia a Venezia infatti cercarono all'inizio di discuterne con l'ancor giovane Matilde, ma invano. Si riuscì solamente ad arrivare ad un compromesso abbastanza ragionevole: il matrimonio si sarebbe fatto ma solo dopo che Matilde avesse raggiunto i 21 anni, divenendo legalmente adulta (quello era allora il termine ufficiale). Si trattava, in fondo, di aspettare non più di due anni, un periodo accettabile anche da due cuori pazzamente innamorati, visto che certi fidanzamenti ufficiali duravano ben più a lungo.
Alla fine dovettero aspettare molto di più. Era successo che Ottavio stava letteralmente rifiorendo come un campo inaridito sotto la pioggia e stava sempre più affrontando il suo lavoro da libraio con un entusiasmo nuovo, più aperto, oggi forse diremmo 'creativo'. Suo padre Antonio, ormai molto anziano, tendeva a rimanere a Montereggio, rintanato tra quelle montagne dove l'aria era chiara e limpida come un bicchier d'acqua ed era buona da respirare, mentre la vecchia Maria si divideva tra il paese e Novara, dove ancora poteva dare una mano in negozio. Quindi Ottavio spesso rimaneva praticamente solo a gestire la libreria. Solo, con Matilde vicino però. Di solito per riuscire veramente un uomo ha bisogno di uno stimolo oltre che di uno scopo. Quella ragazza sembrava essere arrivata al momento giusto. Ora, ormai del tutto padrone di se stesso, si sentiva straordinariamente vivo, più aperto, più determinato, con tanta voglia di fare, di lanciarsi in qualcosa di interessante, di insolitamente nuovo.
Proprio allora, attraverso i suoi numerosi contatti tra la Novara-bene, gli arrivò un'occasione più che unica, che lui afferrò al volo. Gli fu offerto uno spazioso locale sotto i portici del maestoso Teatro Coccia, allora il teatro lirico più importante del Piemonte, uno dei grandi teatri di tradizione che potevano quasi eguagliare la Scala di Milano per imponenza. A suo tempo era stato inaugurato da Toscanini, ma vi avevano diretto anche Mascagni, poi Cantelli, Muti da giovane e molti dei grandi direttori d'orchestra di allora, con molti dei cantanti lirici più famosi. Era inoltre l'edificio più prestigioso della città, con una imponente facciata ab-bellita da grandi portici neoclassici in granito. Il Teatro era ancora di proprietà della Società dei Palchettisti, cioè della buona borghesia cittadina (solo molto più tardi fu ceduto al Comune di Novara) e tra loro Ottavio contava molti dei suoi clienti abituali. Aveva seminato bene ed ora era venuto il tempo di raccogliere. Quell'occasione rappresentava un vero e proprio salto di qualità per la Libreria Lazzarelli, che diveniva così uno dei principali ambienti culturali novaresi, in una posizione decisamente prestigiosa. Chiaramente ciò richiedeva un impegno appropriato, un rinnovamento completo sia dei locali che dell'offerta libraria. Ma non bastava: tutto questo doveva pur crescere e irrobustirsi, proprio come i muscoli di un corpo, per poter funzionare al meglio. Per qualche anno quindi quell'impegno assorbì ogni loro risorsa e gran parte delle loro energie, ma di sicuro ne valse la pena.
Finalmente nel 1961 riuscirono a sposarsi. La prima notte di nozze dovettero però passarla in ospedale, a vegliare la vecchia mamma Maria che stava morendo. La ventitreenne Matilde dovette quindi prendere subito in mano l'andamento della casa e la cura dei figlioli, che l'assorbivano a tempo pieno, anche se in questo poteva contare sull'assistenza della sempre disponibile nonna Clementina, che non era neppure sua suocera - non per il verso giusto, almeno. Siccome era davvero innamorata, e quindi felice, Matilde tendeva ad andare d'accordo con tutti. Anche perché aveva un carattere allegro, non aveva paura di lavorare ed era abbastanza avveduta da non fidarsi esclusivamente del proprio giudizio. Si muoveva ormai quasi come un'ape luminosa in quella sua nuova famiglia fino a poco prima intristita nel lutto e nella rassegnazione.
Dovette poi affrontare anche l'ambiente di Montereggio, duro e pietroso come le sue montagne. Come tutti i loro compaesani sparsi per l'Italia, I Lazzarelli erano praticamente abbarbicati a quelle loro radici antiche. Appena possibile tornavano a far visita a quel loro piccolo paese sperduto tra i boschi scoscesi dell'alta Lunigiana, ci portavano i figlioli perché non dimenticassero, tenevano in buon ordine la vecchia casa che avevano ereditato dai nonni. Matilde ormai Lazzarelli dovette conquistarselo. Non erano gente facile quelli di Montereggio, sembravano fatti di legno duro. All'inizio forse la fissarono come quei cavalli che sporgono la testa dal box per seguirci in silenzio con gli occhi, con una curiosità un po' fredda per quella fresca sposina di pianura che l'Ottavio si era portato su da Novara. Ma anche il ghiaccio al sole si scioglie e non passò molto tempo che Matilde poté muoversi del tutto a suo agio anche al paese. Era diventata di famiglia pure lei.
Ben più impegnativa per la giovane Matilde fu il doversi confrontare con il sorprendente e variegato mondo della grande, media e piccola editoria italiana. La Libreria Lazzarelli di Novara stava ormai diventando un apprezzato punto di riferimento nel mercato della vendita di libri e diverse case editrici avevano stabilito contatti più o meno stretti, non solo di carattere puramente commerciale ma sempre più anche nel caso di speciali promozioni di libri, talvolta per presentazione di autori, e in generale per valutazioni del mercato e simili informazioni. In più, sia Ottavio che suo fratello Giulio erano attivi nell'organizzazione del Premio Bancarella e sempre più spesso proprio nella loro casa a Montereggio si tenevano le ben note riunioni conviviali che precedevano l'assegnazione del premio. Riunioni a cui molti direttori editoriali grandi o piccoli avrebbero dato un occhio per esser presenti e sentire qual vento tirava.
Al Premio, poi, c'era sempre la stampa, giornalisti, autorità, radio-reporter, fotografi, scrittori noti o meno noti, qualche politico, agenti letterari, le prime telecamere della neonata TV, curiosi, qualche lettore interessato, cacciatori di autografi, gente con l'ombrello, se pioveva, insomma tutta quell'umanità brulicante che accorre e affolla i premi letterari più noti, come quelle inarrestabili formichine dalle zampette tuttofare quando fiutano i buoni odori di un pic-nic sul prato. C'erano sempre briciole per tutti. A dire il vero, si era soltanto alla periferia della Grande Cultura Letteraria, ma era importante lo stesso. Come gli altri librai pontremolesi anche Ottavio, che ne era altresì uno degli organizzatori, era tenuto a far doveroso atto di presenza. Quindi, almeno una volta all'anno, anche la giovane, inesperta Matilde doveva imparare ad affrontare in qualche modo quell'affollato, terribile mondo luccicante. Al fianco del suo Ottavio, naturalmente.
Matilde non era nata come una persona di cultura, lo confessava candidamente lei stessa. Aveva avuto un'educazione generica e non era stata abituata a legger molto. Quando però le accadde di innamorarsi di un libraio, cercò coraggiosamente di farsi un'educazione in merito. Aveva per esempio letto le poesie di un certo Arturo Rimbaud, un fran-cese che qualcuno le aveva consigliato e che l’avevano scombussolata tutta. Così pure un paio di romanzi, di quelli che andavano per la maggiore, i cui protagonisti ci mettevano una o due pagine per andare ad aprire una porta o a bere il caffelatte. Molte di più a ricordare una nonna che non avevano mai conosciuto o un amore andato a male per colpa loro. Lei con buona volontà ne aveva letti alcuni, per intero. Alla fine aveva seguito l'esempio di suo marito. Ottavio non si interessava di letteratura, infatti. Si interessava di libri, solo di libri. Li vendeva, li consigliava, li sapeva valutare per quanto valevano, conosceva profondamente le dinamiche editoriali. Ma non si azzardava ad entrare nel merito. Non era il suo mestiere. Era quindi con-siderato un buon intenditore e in molti gli chiedevano consigli su libri e autori.
In quel mondo piuttosto peculiare, tutto teso tra business e cultura, Ottavio sapeva comunque muoversi con sufficiente disinvoltura, quasi con spregiudicatezza, doti che aveva sicuramente assorbito col latte materno e a lungo praticato sin dalla prima gioventù. Matilde, poverina, dovette invece essere istruita passo a passo, con le stesse trepidazioni di chi deve imparare ad andare in bicicletta in età adulta. La prima regola aurea che le dette il suo recente marito fu quella di far uso il più possibile delle due SS, cioè Silenzio e Sorriso. Se proprio necessario, fare solo conversazioni leggere, sul cibo o sulla cucina. Così nelle sue prime emo-zionanti immersioni nelle variopinte serate del Premio Bancarella, o in manifestazioni simili a cui dovevano attendere, Matilde molto sorrise e molto si tacque, ascoltando, osservando e imparando il più possibile. Dato il suo naturale carattere bat-tagliero, qualche volta avrebbe pure voluto poter dire la sua, ma si trattenne il più possibile per evitare, come l'ammonì una volta suo marito, di trovarsi ad essere una cipollina sottaceto in una macedonia di frutta.
A prove del genere, per sua fortuna, non doveva sottoporsi che due o tre volte all'anno. Per il resto Matilde era impegnata a tempo pieno a gestire le cose di casa ed ad accudire ai figlioli, ora che dal '65 le era nato Roberto. Ottavio faceva andare la libreria praticamente da solo, con l'aiuto di qualche giovane commesso tuttofare. Naturalmente lei faceva atto di presenza a tutti gli avvenimenti organizzati della Libreria Lazzarelli, quando qualche libro veniva presentato dall'autore, per esempio. Inoltre lungo il corso degli anni aveva imparato a conoscere personalmente pure lei i rappresentanti delle varie case editrici che regolarmente venivano in visita alla libreria e con loro poteva ormai dialogare da pari a pari, senza soggezione. Cominciava anche a conoscere molti dei clienti abituali, specialmente quelli con cui suo marito era in rapporti di amicizia o di buona conoscenza.
Erano in larga parte persone della buona società novarese, gente per bene, spesso rappresentanti della sparuta intellighenzia cittadina o in qualche caso persone che avevano per caso scritto un libro o due, di solito di argomenti provinciali o qualcosa di simile, opere che avevano una loro cerchia di lettori locali. In questo piccolo mondo municipale Matilde ormai si muoveva senza grandi imbarazzi. Aveva imparato dal marito a destreggiarsi con sufficiente grazia, anzi con un pizzico di genuino coinvolgimento, anche quando si parlava di libri letti o di autori vari. In fondo, non era vero che Ottavio mancasse di interesse verso la cultura. Aveva un buon occhio per l'arte moderna, per esempio, e sapeva riconoscere un artista genuino o un buon quadro. Inoltre qualcosa aveva pure letto, anche per tenersi al corrente. Matilde seguiva le sue orme.
In generale però il suo dominio era essenzialmente la conduzione della casa e della famiglia. Vivevano comodamente, anche se non in modo principesco. Si erano fatti una villetta a Novara, naturalmente in una zona tutta di villette. Avevano pure una domestica a mezzo servizio, la Rina, fidatissima, e un cane, una cucciola di pastore tedesco, la Nefer, con cui, anno dopo anno, entrambi usciranno ogni sera per un doveroso giro del quartiere. A Montereggio intanto avevano rinnovato e man mano ingrandito la casa paterna, con la sua bella e ampia terrazza panoramica sul verde splendore selvatico di quelle valli ripide e strette come lame di coltello, tappezzate da cima a fondo con densi boschi di castagni. Ci passavano parte dell'estate, in famiglia. Intanto, con l'aiuto della nonna Clementina, i ragazzi crescevano bene. Ben presto, appena arrivata ai vent'anni, fu Paola ad andarsene. Per sposarsi, questa volta all'interno del cerchio dei librai pontremolesi, secondo la tradizione. Si scelse infatti un Tarantola, di quelli che avevano la libreria di fronte alle colonne di s. Lorenzo a Milano.
A partire dagli anni dell'allora miracolo economico anche quella ben articolata rete creata dai librai pontremolesi si era sempre più estesa e trasformata, specialmente nelle città grandi e medie del Nord e del Centro Italia. Quasi dappertutto un nuovo spirito imprenditoriale aveva trasformato le bancarelle e le bottegucce dei vecchi librai nelle moderne e ben attrezzate librerie dei loro figli e nipoti, dove non solo si vendevano libri, ma si faceva spesso anche cultura, con presentazioni di opere e di autori, con promozioni legate alle maggiori case editrici, talvolta anche con iniziative editoriali proprie, e non solo a livello locale. I Lazzarelli non erano stati gli unici a creare una grande libreria attiva, anche se a differenza di altri non colonizzarono altre città mandandovi i loro figli ad aprire nuovi negozi di libri. Neppure intrapresero vere e proprie attività editoriali. Con una sola, felice eccezione: la pubblicazione di una rinnovata, completa "Storia di Novara".
Non era mai stata scritta una storia comprensiva della città, dalle origini sino ai tempi moderni. Le storie di Novara scritte nell'800 non erano più attendibili, riportando spesso leggende fantasiose per i periodi più antichi. Non mancavano studi seri, ma solo per settori specifici o per periodi ben definiti. V'erano stato ottimi studiosi locali, come il prof. Viglio o don Lino Cassani, alcune istituzioni di ricerca d'indiscusso livello, come la Società Storica Novarese, con il suo Bollettino Storico oppure Novarien, la pubblicazione del ricco Archivio Diocesano. Ma un'opera definitiva non c'era. Non sappiamo più come l'iniziativa venne presa o chi fu a suggerire a Ottavio un piano del genere. Sta di fatto che la Libreria Lazzarelli, a sue spese, ne incaricò un vecchio accademico ormai in pensione, il prof Cognasso di Torino, che già aveva prodotto il saggio su "Novara e il suo territorio" per la Banca Popolare.
Pur essendo un medievalista dedicato soprattutto allo studio dei Savoia, il Cognasso riuscì a riunire in un volume di ben 600 pagine buona parte degli studi allora disponibili su Novara, dall'antichità all'ultima guerra. L'opera, uscita nel 1971, ebbe un ottimo successo e richiese diverse ristampe. Rimase infatti per decenni l'unico lavoro di quel genere e un indispensabile punto di riferimento per chiunque volesse seriamente conoscere e studiare la storia del Novarese durante i secoli. Con la realizzazione di quel volume la libreria Lazzarelli divenne una vera istituzione in città. Era ormai un riconosciuto punto di incontro informale della classe colta cittadina. Chiunque contasse qualcosa, prima o poi finiva col frequentarla. Comunque, non si sa perché, Ottavio non si lasciò tentare in altre avventure del genere.
Gli anni passarono, anni di crescita, anni di crisi, bui anni di piombo, tranquilli anni di lavoro... Nuovi libri si vendevano, nuovi autori apparivano, altri invece si dissolvevano nell'ombra, non più all'altezza del loro passato. Impercettibilmente i gusti cambiavano e copertine diverse occhieggiavano dagli scaffali della libreria. La Libreria Lazzarelli si era intanto fatta un nome anche al di là di Novara. Era ormai apprezzata dalle maggiori case editrici e in alcuni casi si erano creati ottimi rapporti personali. Per esempio Roberto Cerati, il mitico Direttore Commerciale dell'Einaudi - di cui poi diverrà Presidente - aveva finito col legarsi d'amicizia vera e propria con Ottavio e Matilde e tutte le volte che passava per Novara (era originario di Cressa) non mancava mai di passare dalla libreria. Se la trovava chiusa, lasciava loro bigliettini personali sotto la saracinesca. A casa, i ragazzi intanto stavano diventando sempre più adulti. Marco cominciò a lavorare in negozio insieme al padre, mentre l'ultimo, Roberto, frequentava già le superiori. Matilde aveva quindi più tempo per seguire il marito e stare un po' di più in libreria. Non era più la giovane moglie un po' persa in quel mondo fluttuante e così peculiare. A furia di strofinarvici, un po' di quella effimera polvere di stelle le era rimasta addosso.
Ora era una bella signora di quasi mezza età, ancora intensamente bionda, sempre sorridente, che non passava inosservata. All'occasione ormai sapeva intrattenere anche qualche scrittore di una certa notorietà, poteva sedere e conversare accanto a una personalità durante uno di quegli interminabili pranzi dopo le solite occasioni di promozioni o di premi letterari. Non tutti gli autori, stava sempre più scoprendo, erano scrittori raffinati, ripiegati sulle proprie emozioni personali, che spesso non erano altro che degli intellettuali noiosi che si prendevano troppo sul serio. Molti erano gente per lo più normale. Alcuni, poi, erano persone speciali, che sapevano scrivere come sapevano vivere, cioè bene. Ed era un piacere poter parlare con loro, non necessariamente di libri o di altri autori. Se erano autrici, si finiva col parlare di bambini, di calzature comode, di disturbi femminili. Se erano uomini, si poteva discorrere di cibo buono, di esperienze in buoni alberghi, più spesso dei reciproci malori e malesseri. V'erano infine quelli con una lingua piacevolmente maligna e ci si divertiva un mondo a sentirli parlare dei fatti altrui.
Matilde, sotto certi aspetti, stava quindi diventando una buona collaboratice del marito. In fondo era stato proprio Ottavio, con intuito e perspicacia, a formarla adagio adagio nel corso di quegli anni, anche se lei ci aveva sicuramente messo del suo. Il lavoro di libreria, comunque, rimaneva ancora tutto sulle spalle di Ottavio. Aveva, è pur vero, una certa collaborazione anche da suo fratello Giulio, che aveva alla fine chiuso il suo negozio di libri e ora si alternava tra Montereggio e Novara. I due fratelli non potevano essere più diversi l'uno dall'altro, anche fisicamente. Ormai sulla settantina, Giulio era un ometto magro, magro, con abbastanza rughe in viso da esagerare la sua vera età, impeccabile nella sua scelta di camice e di scarpe di marca. Leggeva molto, faceva l'intellettuale di sinistra e spendeva denaro con facilità. Come libraio, aveva un approccio diverso da Ottavio, ma i due fratelli collaborarono sempre piuttosto bene. Non aveva avuto figli, con disappunto della Felicina e probabilmente con una certa soddisfazione da parte sua. Alla fine si ritirò definitivamente a Montereggio, dove faceva funzioni di quasi-sindaco, dando ombra al sindaco vero, che stava a Mulazzo (Montereggio era infatti solo una frazione).
Invece, nella quotidiana gestione della libreria Ottavio poteva contare sui suoi giovani di bottega - i "garzoni", come lui li chiamava - di solito volonterosi giovanotti alle prime armi che lui addestrava nella sistemazione e cura dei libri, che dovevano essere collocati, ordinati, ritrovati, risistemati, e controllati di continuo. Bisogna dire che i più rapidi e i più spigliati tra di loro, quelli con la memoria più pronta anche se non necessariamente di brillante parlantina, in breve tempo diventavano dei venditori abili ed esperti quasi quanto lui. Di solito questi ultimi rimanevano a lavorare in libreria per anni e anni, ricercati dai clienti che facevano pieno affidamento su loro e dei quali loro già conoscevano gusti ed esigenze. Come il famoso Giuseppino, un ragazzone lungo, lungo che fu uno dei primi, quando ancora si trovavano nella botteguccia sotto i portici. Oppure Giuseppe Russo detto il "Nappa" per via del suo naso grosso. Dopo di lui per un lungo tempo ci fu il Mario Cassineri, sempre con la scigàla in bocca, quel nauseabondo tronchetto di toscano che naturalmente non poteva accendere in libreria. E molti altri ancora. I rapporti erano sempre alla buona, si lavorava quasi in famiglia, anche se si lavorava davvero molto. Bisognava quindi esser svelti, affidabili, pieni di buona volontà e voglia di lavorare.
A Montereggio, invece, Ottavio e Matilde lavoravano in coppia. Era ormai una tradizione che i Lazzarelli aprissero la loro vecchia, comoda casa ai montereggini, agli altri librai, agli editori grandi e piccoli e a chiunque altro capitasse a Montereggio la sera della vigila del Premio Bancarella, nel penultimo week-end di luglio, appena prima delle vacanze. Sulla grande terrazza che dall'alto contemplava il precipitoso lato opposto della vallata venivano serviti grandi forme generose sia di squisito gorgonzola dolce che di quello stagionato, forte e piccante, specialità della terra novarese. Ma anche i buoni salumi conservati nel grasso, i cosiddetti "salàm d'la dùja", così morbidi da sciogliersi in bocca, altra specialità, e per finire i veri biscottini di Novara, quelli fatti ancora dagli ultimi artigiani, non quelli prodotti industrialmente, vere delizie. Più una scelta di vini buoni dalle colline novaresi, naturalmente. Pochi tra gli ospiti che arrivavano per il Premio vi rinunciavano.
Gente veniva su da Pontremoli alla chetichella appositamente per il gorgonzola. Insomma era una festa coi fiocchi, sempre molto, molto affollata. Ci s'imbatteva in gomiti dappertutto, su un sottofondo di voci varie, di risate e di imitazioni di saluti cordiali. Matilde, come padrona di casa, sovraintendeva e intratteneva ininterrottamente, attenta tra l'altro a che tutti stessero pascolando a loro piacimento tra le specialità novaresi e che non posassero bicchieri di vino in bilico sui divani. Ottavio, invece, faceva il vero lavoro. Ogni anno l'invitato di turno era qualcuno delle grandi famiglie ancora a capo delle più importanti case editrici italiane. Quando era possibile, lo stesso capofamiglia storico. Ormai, come già si è detto, il Premio Bancarella era divenuto uno dei quattro grandi premi letterari del paese, la cui vincita faceva schizzare le vendite dei libri per l'estate e si ripercuoteva poi almeno fino al periodo natalizio. Poter aggiungere a un libro della propria scuderia la fascetta "Vincitore del Premio Bancarella" era un boccone a cui neppure un vecchio Commendatore al Merito della Repubblica avrebbe cinicamente rinunciato. Era qualcosa di ancor più appetitoso di quello stuzzicante gorgonzola stagionato.
Proprio su questo contava l'Ottavio. Con l'ospite speciale iniziava abilmente a parlare di Montereggio, magnificando l'antica storia del vecchio borgo intrecciata a quella dei marchesi Malaspina della Spina Secca, accennando poi a quanto le vecchie famiglie dei famosi librai pontremolesi, così influenti e potenti nel mercato del libro in Italia, fossero abbarbicate alle antiche radici da dove erano partiti i loro padri. Il sogno di tutti loro era di poter gradatamente risanare quel loro antico paese natio e riportarlo al suo pristino, rustico splendore. A quel punto, con molto garbo e un pizzico spudoratezza avanzava una proposta un po' insolita: sarebbe stato possibile dedicare una zona da risanare alla persona del munifico benefattore che avesse accettato di accollarsene le spese. La mattina dopo a Pontremoli, insieme alla proclamazione del libro vincitore del Premio Bancarella, sarebbe stato così possibile annunciare ai librai lì riuniti, alla stampa e al pubblico tutto anche la generosa donazione decisa la sera prima. Tutti ne avrebbero parlato, la notizia sarebbe finita sui giornali. Enorme pubblicità, quindi, con risultati a cascata. Ovviamente non vi sarebbe stato alcun rapporto con la scelta del libro premiato quell'anno, scelta già decisa dalle libere votazioni dei librai nei mesi precedenti.
Tuttavia nelle più importanti librerie delle maggiori città italiane il nome di quel generoso donatore e della sua benemerita casa editrice sarebbe stato commentato benignamente e soprattutto ricordato anche negli anni a venire. Si votava ogni anno, dopotutto. In pratica quello era un gentile ricatto, moderatamente peccaminoso forse, ma piuttosto sagace. Funzionò sempre, comunque, anno dopo anno. In fondo era ottima pubblicità per entrambi, sia per la Casa Editrice che per Montereggio e i montereggini. Di conseguenza in paese cominciarono ad apparire targhe del tipo: piazza A. Rizzoli, via G. Einaudi, borgo U. Mursia, viale G. Rusconi, borgo G.G. Feltrinelli e così via e così via. Ci sono ancora. Oggi Montereggio è uno dei borghi antichi meglio conservati della Lunigiana, forse d'Italia. A onor del vero tali liberalità di norma richiedevano poi tempi abbastanza lunghi e venivano concordate con l'apporto anche di altri influenti personaggi, specie tra i più autorevoli e stimati librai pontremolesi.
Ma in genere tutto ciò aveva quasi sempre inizio in una di quelle piacevolissime e affollate serate sulla grande terrazza di Ottavio e Matilde Lazzarelli, tra gorgonzola e biscottini, di solito sotto un gran cielo stellato di fine luglio. Così il piccolo borgo di Montereggio divenne uno dei riconosciuti "paesi del libro", una lista ristretta a solo 17 località in tutto il mondo, l'unica in Italia, e oggi un monumento all'antico ambulante con la sua gerla di libri lo ricorda nella stessa piazza del paese (piazza Arnaldo Mondadori, naturalmente). Ci fu un solo inconveniente: una strada era stata dedicata a "De Witt e Lia Acheson Wallace", che erano i fondatori del Reader's Digest americano, allora molto popolare anche in Italia. Vi furono serie rimostranze da parte di famiglie che abitavano in quella strada, perché non riuscivano mai a scrivere il loro indirizzo giusto. Quei nomi forestieri erano troppi complicati per loro. Non ci fu verso, però. Dovettero rassegnarsi ed imparare l'inglese.
Nel 1981 Ottavio compiva 60 anni e cominciava a perdere la battaglia contro quell'impietoso accenno di pinguedine nel girovita che affligge quasi ogni maschio a quell'età. Ma sfoggiava ancora una discreta figura. Per il resto, nonostante qualche spiacevole acciacco o qualche occasionale malanno, stava ancora ben piantato sulla breccia. Matilde ormai navigava felicemente sul lago tranquillo della mezza-età e guardava ancora a suo marito come si guarda all'alba. La loro vita procedeva come sempre, saltellando tra il bene e il male, senza scosse eccessive. Nella loro vita privata erano ormai una buona coppia borghese, con un bel giro di amicizie, interessi abbastanza vari tra buoni investimenti, un po' di cultura, un po' di politica non troppo impegnata, vacanze al mare e a Montereggio, passeggiatine serali col cane.
Però nell'86 Ottavio cominciò ad accusare dei malori. Già dalle prime visite si seppe subito cos'era ma Matilde lo tenne nascosto al marito il più a lungo possibile. Cominciò inoltre a farsi lei carico di tutto, fin dove poteva. Tuttavia, durante le vacanze a Montereggio Ottavio iniziò a deperire sensibilmente e dovettero riportarlo subito a Novara in ambulanza (solamente un anno prima Ottavio e Matilde, con un simile angoscioso viaggio in ambulanza, avevano dovuto portare d'urgenza Giulio da Montereggo a Novara). Ricoverato in ospedale, Ottavio non si riebbe più, nonostante l'assiduo impegno del prof. Giuliano, primario pneumologo. Morì il 31 agosto. Improvvisamente Matilde era rimasta sola. Tutti le si serrarono intorno, famiglia, amici, colleghi librai, dipendenti, fornitori, gli stessi clienti. In molti le porsero una mano, altri non le negarono il loro sostegno o il loro interessamento. Eppure Matilde era sola, completamente sola. Con lei c'era solamente un dolore simile ad un abisso, che le dava le vertigini.
Chi le fu maggiormente vicino in quei primi difficili momenti fu suor Nemesia, una forte e pratica suora d'ospedale, che a Novara diverrà poi una vera icona cittadina. Di solito si crede che le suore ospedaliere credano solo in un Dio dal carattere scostante, ma Nemesia era un vero pilastro di sostegno. Ed era intelligente. Con cortesia e delicatezza le rammentò che nessuno arriva in Paradiso ad occhi asciutti e che per reagire al dolore bisognava vincere proprio quella vertigine di vuoto, il pericolo di un'interna solitudine. La consolò e la incoraggiò. Ne nacque un'amicizia forte e profonda che durò molto a lungo, sino alla fine. E da lì, con ammirevole tenacia, Matilde seppe ripartire.
Ripartì comunque da sola. Non voleva gravare sui figli. Marco già lavorava in libreria, ma in posizione subordinata, mentre Roberto, il figlio più giovane, aveva appena iniziato l'Università e Paola aveva la sua famiglia a Milano a cui badare. Per sua fortuna Ottavio aveva lasciato una libreria ben organizzata, funzionante come un meccanismo ben oliato, soprattutto per la vendita e i rapporti con la clientela. La sua rete di relazioni esterne, inoltre, resistette intatta e non si sfaldò con la sua scomparsa. Matilde non ebbe quindi bisogno di cambiare alcunché. Anzi, lei non volle mai cambiare nulla di ciò che aveva creato il marito ma continuò co risolutezza lungo binari già posati. Solamente una cosa fu però costretta a cambiare: se stessa. Era sempre stata di natura battagliera, ma si era nondimeno sempre trattenuta per interferire il meno possibile nel lavoro di Ottavio. In tutti quegli anni insieme, si era volutamente ritagliata una funzione più di supporto che di partnership. Ora però fu costretta ad usare tutta la sua determinazione e dovette esibire il suo vero temperamento, senza esitazioni o ripensamenti. Gli inevitabili avvoltoi (prima o poi appaiono sempre in casi del genere) che si erano illusi di poter iniziare a spennare con relativa facilità un'inesperta e impacciata chioccia da cortile, si trovarono così a dover stare improvvisamente attenti a una nuova sparviera col becco pronto e gli artigli sfoderati. Una sparviera che sorrideva spesso, però, perché quello fu in un certo modo il suo nuovo "marchio di fabbrica". Tutto sommato, un approccio vincente. Per di più riusciva ad avere un'amministrazione oculata e teneva a posto i registri. Quindi le venne estesa fiducia da chi di dovere.
Naturalmente non fu sempre facile. Vi furono crisi, ma nel bene o nel male furono superate. Aveva Marco, come si è detto, a lavorare con lei in libreria mentre Roberto aveva finito con l'imboccare una strada diversa, anche se resterà personalmente sempre vicino al mondo dei libri. E poi c'erano i giovani di bottega, quelli nuovi, quelli che lei aveva scelto e formato. Solo per citarne i maggiori, ci fu prima un Luca, un iperdinamico giovanotto che ordinava i libri come un sergente maggiore avrebbe messo in riga i suoi soldati, e poi Angelo, che andrà a gestire una storica edicola di giornali. In seguito arrivò Alessandro, sempre calmo, affidabile, buon conoscitore di libri, e poi un altro Luca. Furono in molti, per lo più temporanei, ma alcuni rimasero a lungo, fin quasi a fondersi con la libreria. Più che comandarli, la signora li spronava, controllandoli sempre con i suoi occhi blu, più acuti di quelli delle aquile. Non li lasciava certo a guardare il soffitto.
Nel frattempo altri negozi di libri avevano aperto a Novara, anche se nessuno era riuscito ad intaccare seriamente la preminenza e il prestigio della Libreria Lazzarelli. Aprì però anche una nuova libreria in cui aveva un interesse personale anche un notabile locale che poteva allora vantare una certa influenza sull'amministrazione cittadina. Incominciarono così a verificarsi una serie di indirette pressioni e di imposizioni e controlli mai prima verificatesi, talvolta non più che spiacevoli e imbarazzanti malintesi con gli uffici municipali. Proprio in quegli anni, però, scadeva il contratto d'affito per i locali della libreria nel Teatro Coccia, che nel frattempo era divenuto di proprietà comunale. Se il contratto per qualche ragione non fosse stato rinnovato dal Comune, la libreria avrebbe dovuto cambiar sede, perdendo così una posizione non solo prestigiosa ma anche previlegiata. Trovare un'altra sede adatta e altrettanto centrale, più il costo stesso del trasloco e il dover ricominciare quasi da capo, avrebbero inciso profondamente, troppo profondamente forse, sulla conduzione della Libreria. Matilde doveva resistere. Iniziò allora una lotta sotterranea a colpi bassi, dati quasi sempre da mani nascoste, una guerra invisibile, che Matilde affrontò sempre col solito sorriso sulle labbra. Ma talvolta quel sorriso tremolava. Tuttavia il Buon Dio dei Librai Per Bene non l'abbandonò. Una folata di vento politico alla fine rimescolò le poltrone in Municipio e così la stimata Libreria Lazzarelli poté continuare a esporre i suoi libri e a lasciare che i suoi affezionati clienti scartabellassero a loro piacimento tra gli scaffali esposti sotto il classico porticato del Teatro Coccia.
Iniziò dunque, con gli anni '90, l'era "Matilde" della libreria. Fu un buon periodo, bisogna ammetterlo. Matide non possedeva la spiccata personalità e la vivace e disinvolta originalità di suo marito, è pur vero, ma seppe tenere saldamente in mano il timone. Abilità e discrezione le aveva apprese da Ottavio. Di suo ci mise un'istintiva capacità di sincera cortesia e un certo fascino sorridente verso tutti, clienti e fornitori. Ovviamente di tanto in tanto dovette pestare i piedi a qualcuno (e qualcuno finì con lo strillare, anche forte). Inoltre, come per tutti noi, alcuni errori di valutazioni e qualche scelta inopportuna furono inevitabili nel corso di quegli anni. Riuscì comunque a superare molti scogli con adeguata determinatezza, ma ancor più con buon senso e, dove era necessario, con sufficiente tatto, talvolta con garbo e talvolta con polso. Ora era praticamente lei a garantire la situazione di prestigio che godeva la Libreria Lazzarelli sia a Novara che fuori.
In quegli anni erano divenute sempre più popolari le presentazioni di novità librarie da parte di autori più o meno noti e attiravano sempre molto pubblico. Le stesse case editrici incoraggiavano le librerie, non solo quelle nelle città metropolitane, a organizzare tali eventi. Con i contatti personali che aveva mantenuto nel mondo editoriale Matilde era ora in grado di far venire a Novara molti nuovi autori che erano arrivati al successo in quegli anni. E la stampa locale naturalmente ne parlava, citandola, il che era tutta buona pubblicità. Naturalmente sapeva benissimo di dover operare come sotto una lanterna di vetro, dove il buon nome si diffonde in lungo e in largo, ma quello cattivo ancora di più. Quindi nel suo campo si comportò di conseguenza e, come risultato, abbastanza furono gli amici, qualche nemico, ben pochi gli indifferenti.
Non trascurò nemmeno gli autori locali, fiori che sbocciano una sola estate. Fino a qualche decennio prima in provincia la classe intellettuale di solito constava per metà di dilettanti, per l'altra metà di pedanti. Tuttavia con il diffondersi dei computer personali, scrivere stava diventando sempre più facile per chiunque, molto più che con l'ormai vetusta macchina da scrivere. Poter fare continue correzioni, inserire o cambiare paragrafi interi, stampare più copia, divenne un gioco da ragazzi. Quasi all'improvviso vi fu perciò un vero fiorire di neo-autori: vi fu chi si mise a scrivere libri di vita vissuta, spesso non più che vecchie memorie di famiglia, altri si dedicarono a scrivere su storie locali più o meno oscure o dimenticate, poi venne la moda dei gialli, qualcuno volle ancora pubblicare le proprie poesie, come si usava una volta, spesso stampate da editori così piccoli da sfuggire ad ogni indagine.
Buona parte di coloro che erano riusciti a farsi stampare un libro, comunque, si sarebbero sentiti veramente "arrivati" come autori solamente se potevano poi presentare ad amici, parenti e concittadini la loro opera nei locali della migliore libreria in città. Per Matilde anche questo era un buon mercato, dato che faceva arrivare al suo negozio anche gente che non frequentava troppo spesso la carta stampata. Inoltre garantiva un po' di vendite sicure, almeno nella cerchia dei conoscenti dell'autore. Tra questi dilettanti talvolta si trovavano perle vere e anche questo tutto sommato era buona pubblicità per lei. Cominciò quindi ad esser conosciuta anche al di fuori della cerchia di soliti clienti che venivano a sfogliare le novità nel suo negozio. Persino semplici passanti la riconoscevano ormai, sia pure solo di vista, come la signora dei libri che sorrideva spesso anche a loro. Stava diventando un'icona pure lei.
E in più c'era la sua vita privata. Per nessuno è facile rimaner soli dopo una vita vissuta insieme. Non lo fu neppure per lei. La morte di Ottavio le aveva tagliato l'anima in due e una metà era andata persa. Anche qui dovette in qualche modo ricominciare. Per ogni cosa si trova ciò che può sostituirla, tranne che per l'amore della prima giovinezza. Infatti Ottavio non fu mai sostituito. Fu messo con gran cura nel tabernacolo del suo cuore, dove nessun altro poté mai più entrare. Dopo di che Matilde riprese pian piano, passo dopo passo, a vivere ancora. Era una vita per alcuni aspetti ormai diversa, a cui era giocoforza doversi adattare. Ma non fu una vita triste. La casa era tutta per per lei, ora, così come il divano da cui ogni sera dover guardare, in solitaria quiete, la televisione. I ragazzi infatti ormai erano indipendenti e vivevano da soli, Marco a Novara, Roberto a Milano, anche se venivano regolarmente a casa a trovarla e a portare la biancheria. Anche la sua vecchia Nefer non c'era più. Era stata picchiata a morte dai ladri introdottisi in casa mentre Matilde era in negozio. Fu per lei uno strazio in più, una porta che si chiudeva sul suo passato.
Buoni e continui furono sempre i rapporti con l due lati della famiglia, sia con Montereggio che con le sorelle rimaste a Venezia. Quando fu immobilizzata a casa per un problema all'anca fu proprio sua sorella Maria a venire a Novara ad accudirla. Matilde non riusciva a fare la nonna. Sonia e Chiara, le due ragazze di Paola, le uniche nipoti che avesse, tendevano troppo spesso a trattarla come un'amica più navigata e con qualche anno in più. E a lei piaceva. Non aveva infatti assunto quel composto aspetto matronale delle cinquantenni e sessantenni di allora, anche se invece dei riccioli biondi di prima ora portava un morbido chignon biondo. Oltre che nel lavoro, si rifugiò di più in più in vari giri di amicizie vecchie e nuove, che furono sempre stimolanti, calorose e costanti. Furono infatti questi amici, uomini e donne, che singolarmente o in gruppo le rimpirono la vita in quegli anni, le aprirono nuovi orizzonti, le diedero nuovi impulsi. Erano belle compagnie di persono intelligenti, con cui uscire a cena, andare a concerti, fare gite interessanti. Le davano un senso di caldo in fondo al cuore, anche se talvolta la facevano sentire una donna straordinariamente comune. Con due amiche della stessa età, la Carmen e la Bianca, entrambe vedove come lei, prese poi con molto entusiasmo a fare vacanze per quei tempi piuttosto esotiche e abbastanza avventurose, prima in Tunisia, in Marocco, poi in Brasile, Thailandia, nell'Oceano Indiano e così via, in cui lasciarsi andare e divertirsi come ragazze un po' spensierate. Nulla di trasgressivo, ovviamente, non ne sarebbero state forse capaci.
Nonostante tutto ciò, il perno intorno a cui la sua vita continuava a svolgersi era sempre la Libreria. La sua tenacia era ammirevole, ma i tempi mutavano e lei in fondo lo sapeva. Sentiva il vento freddo del tempo sempre più soffiarle lungo la schiena. Non era più giovane, anche se aveva una pelle ancora rosea, quasi senza rughe, e solo qualche leggera striatura d'argento tra i suoi capelli ancora biondi. Ma gli anni se ne andavano in fretta, come l'acqua che ci scorre tra le dita, e ben presto il traguardo del 2000 fu superato. Ora un problema cominciò ad assillarla, il problema dei figli. Roberto aveva ormai definitivamente intrapreso un'altra carriera. Marco invece lavorava da tempo con lei in libreria. Era ormai un uomo maturo, che conosceva bene il mestiere, sapeva vendere, aveva un buon approccio con i clienti. Aveva però nel sangue l'istinto bancarellaro dei suoi nonni, tendeva cioè ad essere per sua natura un tradizionale libraio del tipo antico. Un buon libraio, certamente, ma purtroppo la realtà stava mutando sotto i suoi stessi occhi.
Marco si trovava quindi sempre più a disagio con l'innovativo spirito imprenditoriale che ormai diventava via via necessario, anzi, essenziale, anche nel mondo dei libri. Era imperativo saper correre dietro ad un mercato che ormai si evolveva rapidamente, alla velocità della rete mondiale. Matilde riusciva a capirlo ma si rendeva conto di non sapere come riuscire a risolvere quel problema. Non aveva una soluzione. Se ne discusse quindi in famiglia, si richiesero opinioni e consigli anche nella cerchia degli altri amici librai. Alla fine si arrivò alla decisione di importare sangue fresco in azienda. Il figlio più giovane di un'altra importante famiglia di librai, gli LaJannella di Milano, che non erano pontremolesi ma che venivano da un'esperienza molto simile, era disponibile a venire a lavorare in libreria. Come socio, però.
Le trattative furono serrate e ragionate a fondo. Alla fine ci fu un definitivo passaggio di mano, di cui entrambi le parti si dichiararono soddisfatte. I Lazzarelli avrebbero mantenuto una loro presenza e il nome di "Libreria Lazzarelli" sarebbe rimasto immutato, come garanzia di qualità, ma la conduzione sarebbe passata ai La Jannella. Inoltre, Marco sarebbe rimasto ma Matilde avrebbe lasciato. Lei stessa l'aveva accettato. Aveva passato la settantina ed era ancora in buone condizioni, ma non era cieca davanti al futuro e capiva che ormai le sarebbe stato sempre più difficile, quasi impossibile, affrontare da sola i tempi nuovi. Avrebbe avuto bisogno di un nuovo punto di appoggio. Lasciò senza speciali rimpianti, specialmente perché Fabio LaJannella da subito si era rivelato un giovane uomo scrupoloso e armato di acuto giudizio, ma soprattutto un gran lavoratore. E ciò era per lei una più che sufficiente garanzia di continuità.
Tutti davano per scontato che, libera dall'impegno fisso del negozio, Matilde si mettesse a coltivare con passione progetti di vita attiva che avrebbero potuto soddisfare i suoi interessi e appagare le sue curiosità. Si ritirò invece in una specie di velato riserbo, come se provasse un'indefinita rassegnazione. Lasciò persino la sua casa a Roberto, che si doveva sposare, e si trasferì in un minuscolo appartamento contiguo a quello di Marco. Divenne tutta grigia, ma sorrideva ancora, anche se più raramente, frequentava ancora le sue amicizie, anche se saltuariamente, veniva talvolta ancora in libreria, anche se occasionalmente, più che altro per far atto di presenza a qualche manifestazione. Non che rimanesse in casa a pettinare le sue melanconie, perchè non aveva rimpianti. Il suo era stato in fondo un atto d'amore verso suo marito, traghettando l'opera di una vita di Ottavio sull'altra sponda, quella nuova, proteggendola così dal pericolo di diventare gradatamente più obsoleta per poi, come è inevitabile, declinare e decadere. Era stato soprattutto un gesto di coraggio, che non molti avrebbero saputo fare con simile determinazione. Non aveva nulla da rimproverarsi. Doveva solo concludere l'opera, in qualche modo. Non passò neppure un anno e una notte mori, praticamente da sola, quasi senza voler disturbare nessuno. Il suo funerale fu veramente affollato, con molte persone venute anche da fuori. Furono dette belle, nobili parole, che piacquero a tutti. Poi la bara fu mandata a Montereggio. E tutto finì lì. Dopo di che rimase solo il ricordo.
Non proprio tutto finì, a dire il vero. Matilde era troppo legata alla sua libreria per sparire così. Secondo alcuni, infatti, non sparì del tutto. Si cominciò a sussurrare che la si vedeva talvolta in piena notte sotto i portici del Coccia, una figura iridata, leggera, irreale come una bolla di sapone, che salutava con un sorriso qualche raro passante notturno. Ma Novara non è mai stata una città di fantasmi. La gente qui è stagna e, come san Tommaso, non va oltre a ciò che realmente può toccare col dito. Queste fantasiose romanticherie ebbero infatti ben poco seguito. Altri si erano convinti che la sua presenza si manifestasse con un insistente sentore di libri nuovi, un profumo di buona carta stampata che aleggiava spesso davanti alla libreria. Non era difficile crederlo, visto che vi sono sempre diverse centinaia di libri esposti, per lo più novità appena uscite, spesso ancora umide di stampa. Forse quello che davvero continua ancora ad aleggiare sotto i bei portici ottocenteschi del Teatro Coccia è quel suo leggendario, impavido sorriso con cui ci accoglieva in libreria. Non sarà forse il Sorriso della Gioconda. Ma non è detto che il SORRISO DELLA MATILDE, almeno per quei novaresi che l'hanno conosciuta davvero, non sia qualcosa di altrettanto valore. Qualcosa di cui mantenere il ricordo, anche dopo di noi.