Maria Salasco cornice

L'ENIGMA di MEINA

un fatto storico dai contorni ancor oggi oscuri
accaduto nei pressi della Villa Faraggiana

fregino armati.psd

Nella tarda primavera del 1871 a Meina, allora ridente paese rivierasco sul Lago Maggiore, si verificò un fatto increscioso: l'improvvisa e inspiegabile scomparsa di un visitatore arrivato solo pochi giorni prima. Si trattava di un prelato che si era presentato come monsignor Riccardo Leonardi, proveniente da Roma. Era giunto il giorno 15 di Maggio in carrozza da Arona, dove a quanto poi risultò era arrivato in ferrovia, e stranamente aveva preso alloggio non all'Albergo Verbano, il migliore del paese dove tutti i visitatori di un certo rango risiedevano di solito, ma nella modestissima pensioncina del Caffè del Lago, vicino al mercato. Era arrivato con poco bagaglio e aveva dichiarato alla proprietaria del Caffè che si sarebbe fermato per circa una settimana, senza tuttavia dare alcuna ragione del suo soggiorno sul lago Maggiore. Non aveva dato l'impressione, però, che si trattasse di un villeggiante o di un convalescente, come la maggior parte dei visitatori forestieri. Era stato infatti molto, molto riservato.

Il giorno stesso del suo arrivo questo monsignor Leonardi aveva noleggiato un calessino e si era fatto portare a Stresa, dove aveva fatto un lungo giro a piedi. Si era fatto indicare villa Bolongaro, dove allora soggiornava la Duchessa di Genova, prendendo appunti su di un suo taccuino. Il giorno seguente era andato, a piedi, fino a Lesa e aveva chiesto a gente del luogo insistenti indicazioni sulla Villa Stampa, casa di vacanze di Alessandro Manzoni, e su chi erano i vari servitori nella villa. Il giorno dopo si era allontanato di buon ora, ancora a piedi, dal Caffè del Lago, avendo chiesto alla locandiera la strada per arrivare a Dagnente, la frazione superiore del paese. Quella sera però non era tornato e neppure la mattina seguente. Allarmata, la proprietaria del Caffè era andata a parlarne con l'arciprete del paese, don Bionda, il quale non solo non ne sapeva nulla, ma si era meravigliato che il monsignore in questione non fosse mai venuto in parrocchia per una visita di cortesia. Non l'aveva mai neppure visto in chiesa per qualche funzione, come qualsiasi altro sacerdote avrebbe fatto. Dato che il tutto gli  sembrava piuttosto inconsueto, l'arciprete aveva subito informato del caso il sindaco del paese, che aveva fatto venire da Arona un delegato di Polizia.

Tra le carte del prelato era stato trovato un recente passaporto dello Stato Pontificio al nome di monsignor Leonardi Riccardo, nativo di Chieti, Domestico di Sua Santità, oltre a vari lasciapassare e documenti che lo indicavano, tra l'altro, come membro della Congregazione della Sacra Romana e Universale Inquisizione (come allora si chiamava il Sant'Uffizio) a Roma. La sua identità era perciò indiscutibile. Vi erano però altre carte piuttosto misteriose, che contenevano informazioni dettagliate su vari personaggi, tra cui il conte Stefano Stampa, figliastro del Manzoni, sul filosofo Antonio Rosmini, morto una quindicina d'anni prima, che alla villa Bolongaro di Stresa aveva abitato per anni, sul neo-marchese Rapallo, attuale marito morganatico della Duchessa di Genova e su diverse altre persone della zona, alcune influenti, altre semplici paesani. Ma ciò che rese molto sospettoso il Delegato di Polizia fu una lettera sigillata direttamente indirizzata a Sua Altezza Reale la Duchessa di Genova con i sigilli della Segreteria Vaticana.

Solo otto mesi prima, nel Settembre del 1870, v'era stata l'annessione di Roma al Regno d'Italia, con la presa di Porta Pia, che aveva creato un fortissimo attrito tra la Santa Sede e re Vittorio Emanuele, cognato della Duchessa. Inoltre era risaputo che tra i due non correva buon sangue, per il fatto che Elisabetta di Sassonia, rimasta vedova in giovane età del fratello del Re, Ferdinando di Savoia, si era subito risposata clandestinamente con un ufficiale d'ordinanza del defunto marito, un certo Nicola Rapallo, non nobile, suscitando le ire furiose del Re. Era quindi stata allontanata da corte e confinata appunto a Stresa, anche se sotto blanda sorveglianza. Recentemente però vi era stata una specie di rappacificazione, dato che la figlia della Duchessa, Margherita di Savoia, era appena stata data in sposa al principe ereditario Umberto. Pur non riammettendo a corte la cognata fedifraga, Re Vittorio le aveva ripristinato gli attributi reali e aveva persino accettato, con un pizzico di ironia, di nominare Marchese di Rapallo il marito morganatico, che di cognome già faceva Rapallo. Ora, il fatto che dalla Corte Papale, ormai nemica acerrima dei Savoia, arrivasse una lettera sigillata alla Duchessa, che dai Savoia era stata così bistrattata, poteva forse significare l'esistenza di un intrigo, di una macchinazione politica ad alto livello a danno della dinastia. Fu quindi subito inviato un telegramma al Prefetto di Novara di allora, Luigi Pissavini, poi senatore, e questi, visto di cosa si trattava, telegrafò immediatamente a chi di dovere a Torino, intimando nel frattempo al sindaco di Meina di non toccare nulla e di assolutamente non parlare con nessuno del caso.

Nemmeno due giorni dopo arrivarono a Meina tre signori da Torino, due ispettori generali e un militare d'alto rango, che presero in consegna tutti i documenti del povero monsignore, li chiusero in un bauletto sigillato e intimarono silenzio a tutti, pena l'arresto immediato. Da Novara fecero arrivare d'urgenza il locale Procuratore del Re, l'avv. Raffaldi, e gli affidarono la ricerca del prelato scomparso, che doveva esser ritrovato il più presto possibile, vivo o morto. Il tutto però con estrema riservatezza e discrezione, senza far trapelare assolutamente nulla in giro. Nessuno doveva sapere. Poi se ne andarono via rapidi come erano venuti. Le ricerche del disperso non diedero però alcun risultato. Sembrava svanito nel nulla. Nessuno l'aveva più visto da quella mattina, né a Meina né a Dagnente, dove sembra fosse diretto. Dopo qualche giorno arrivò da Torino l'ordine tassativo di sospendere ogni ricerca e di archiviare il caso. Il che fu immediatamente fatto.

Ma in paese erano già cominciate a correre voci. Si diceva che una vecchia donna del luogo, una certa Clementina Bardella detta la Povera Sbircia, proprio nella mattina della scomparsa fosse andata a raccogliere funghi da sola nel bosco sopra il paese. Questa vecchia, la Sbircia, si sarebbe trovata proprio nei pressi dove il sentiero per Dagnente costeggiava il lungo muro di cinta posteriore della Villa Faraggiana e aveva notato, senza farci troppo caso, quel prete un po' grassoccio che camminava adagio lungo il sentiero, un poco più in basso da dove lei si trovava. All'improvviso da una porticina del muro di cinta aveva visto uscire quello che lei chiamava un uomo selvatico vestito da donna, con uno strano abito rosso e con una sciabola in mano. Costui e il prete si erano fermati a guardarsi per un istante poi dopo un breve scambio di parole, che per la distanza la vecchia Sbircia non era riuscita a sentire, la strana persona in rosso aveva lanciato un urlo terrificante e brandendo la sciabola aveva dato addosso al povero monsignore, in quale, voltate le terga, era scappato via per i boschi strillando e chiedendo aiuto, inseguito dall'altro che ululava in modo pauroso, sempre con la sciabola in pugno.

Pensando di aver visto il demonio in persona, o almeno una persona da quello posseduta, la povera vecchia era scappata gridando e s'era rifugiata in casa sua, dove aveva sbarrato la porta col catenaccio, rimanendovi chiusa per ben tre giorni a tremare e a invocare la Madonna e tutti i santi che proteggevano dal malocchio. Quando si sentì sufficientemente  rinfrancata da uscire e raccontare ai vicini ciò che aveva visto, i tre signori di Torino se ne erano già andati. Per alcuni giorni la notizia dell'accaduto serpeggiò in paese da porta in porta, prima che arrivasse alle orecchie della Polizia. Nel frattempo la gente di Meina aveva già avuto tempo di trarre delle conclusioni. Se l'aggressione era avvenuta vicino alla villa dei Faraggiana, era possibile che c'entrasse quella signora molto, molto strana che da qualche tempo era loro ospite. Si riferivano alla contessa Maria Martini Giovio, nata Canera di Salasco cognata di una delle figlie Faraggiana, Angiolina, che appunto uno dei Salasco, prestigiosa nobiltà piemontese, di Pinerolo, aveva recentemente sposato.

Questa contessa era infatti una donna decisamente bizzarra, che si era conquistata una pubblica nomea che in quei tempi piuttosto bigotti poteva ben dirsi scandalosa. Figlia del famoso conte Salasco, aiutante generale di re Carlo Alberto, sin da giovinetta era stata irrequieta e selvaggia, cavalcando a rotta di collo e maneggiando la spada meglio dei suoi fratelli. A diciott'anni s'era trovata a Milano durante le famose Cinque Giornate e vi aveva incontrato il non proprio giovane conte Emilio Martini Giovio della Torre, cremasco, coinvolto con i rivoluzionari, che dopo una furiosa corte amorosa se la sposò. Essendo stato bandito dal Lombardo Veneto dal Governo Austriaco, che gli confiscò pure tutti i beni, il conte portò la giovane moglie a vivere a Parigi. La bella Maria, con l'avventatezza dei vent'anni e con il suo temperamento irruento, visse così una breve stagione stimolante e  infervorata, spendendo cifre significative e alla fine coprendosi di debiti. Ormai in gravi difficoltà economiche, la coppia fu costretta alla fine a ritornare, ma Maria, instabile e inquieta, aveva iniziato ad assumere comportamenti poco convenzionali, vestendo alla militare, tirando di sciabola, ribellandosi alle regole sociali e soprattutto non tenendo una condotta irreprensibile. Tanto che ben presto aveva rotto con il marito e persino con la sua stessa famiglia di origine.

Rimasta senza adeguati mezzi finanziari, se ne era andata da sola a Londra, allora rifugio di molti fuorusciti, dove aveva vissuto un'esistenza da bohème rivoluzionaria, romantica, avventurosa e un po' folle. Tra i vari esuli, conobbe pure Garibaldi, rifugiatosi a Londra dopo il fallimento della Repubblica Romana. Garibaldi, si sa, aveva un certo debole per le giovani aristocratiche irrequiete e appassionanti. La giovane contessa Salasco gli si dedicò con un fervore travolgente e trascinante, che travalicava ogni limite, mescolando amore e politica, fanatismo e sacrificio. Non era, comunque, l'unica donna di Garibaldi, ma a lei andava bene così. Quando, qualche anno dopo, il generale si lanciò nell'avventura dei Mille, l'ormai trentenne Maria, accesa d'entusiasmo, era subito corsa a frequentare il'addestramento ad infermiera che a Londra stava organizzando la famosa Florence Nightingale, per poi raggiungere il suo eroe nella Palermo liberata. Avrebbe voluto librarsi come un angelo consolatore sopra i feriti garibaldini, ma con i suoi atteggiamenti ingombranti e sovente scombinati finì col creare troppo spesso inutili tensioni, finché il vecchio dottor Rìpari, medico della spedizione, la fece espellere dalle ambulanze. Si buttò allora nel vivo delle  battaglie, sempre vestita da ussaro, con un gran cappello piumato e l'immancabile sciabola, dando ordini alla truppa, correndo a cacciarsi nel pericolo, ingombrando l'azione dei militari, finché lo stesso Garibaldi, a quanto sembra pressato dai suoi ufficiali esasperati, la fece gentilmente rimpatriare ancor prima di puntare su Napoli.

La contessa si era allora stabilita a Crema, nelle tenute del marito, morto nel frattempo. Ormai libera e con l'alone di eroina della spedizione dei Mille, si mise a condurre vita stravagante e dispendiosa, vestendo alla militare, tirando di scherma, galoppando a briglia sciolta per la cittadina con camicia rossa, pantaloni attillati e un sombrero piumato. Soprattutto si consacrò al mito di Garibaldi, a cui si era ormai votata con dedizione assoluta. Gli scriveva lettere esaltate, accorse accanto a lui nel '66 alla Bezzecca, si offri più di una volta a dividere con lui l'autoimposto esilio a Caprera, anche se il Generale garbatamente subito aveva rifiutato. Intanto si era dedicata a dilapidare il patrimonio lasciatole dal marito, incurante della sua rovinosa reputazione presso i buoni borghesi lombardi. Anzi, sfidava le convenzioni sempre di più, fino a insultare il fratello, Luigi Salasco, che l'aveva invitata a moderarsi, sfidandolo pubblicamente a battersi alla sciabola e svillaneggiandolo davanti a tutti insieme alla giovane moglie appena sposata, l'Angela Faraggiana appunto.

Maria a Crema

Maria Salasco Martini durante il periodo del suo soggiorno a Crema
(da una stampa dell'epoca)

Scoppiata la guerra franco-prussiana del 1870, seguì al fronte il corpo di spedizione garibaldino, ma dopo la sconfitta si era ritrovata intrappolata nel terribile assedio di Parigi, da cui riuscì in qualche modo a scampare. Non poté più, tuttavia, rimanere in Francia, non si sa per quale ragione - ma probabilmente perché oberata da debiti non pagati - e dovette riparare ancora una volta in Italia. La sua famiglia però non volle assolutamente più saperne di lei, che si ritrovò quindi sola, senza mezzi, con la reputazione rovinata e ormai non più giovane, in una situazione a dir poco disperatamente imbarazzante. Chi la salvò fu la giovane cognata Angiolina, che si offrì di ospitarla nella villa della sua famiglia a Meina, sul Lago Maggiore. Lontana dagli occhi della società che allora contava, in un ambiente rustico che a quei tempi era abbastanza periferico e defilato, una persona sempre più scriteriata, se non già squilibrata, come la contessa Maria avrebbe dovuto fare relativamente pochi danni.

Ma danni ne fece, anche se contenuti. Oltre a scandalizzare la servitù con i suoi stravaganti abbigliamenti mascolini, la terrorizzò tirando di scherma per la casa e brandendo terribilmente la sciabola contro di loro ad ogni piè sospinto, gridando contro nemici immaginari. Atterrì i villici del paese galoppando furiosamente per le viuzze di Meina col mantello svolazzante e i capelli al vento, spesso urlando di gioia e di esaltazione. Non era più una persona del tutto normale e veniva ormai chiamata "la Matta", anche se tali comportamenti eccessivi erano abbastanza occasionali. Un giorno però si incaponì a fare il bagno tutta nuda nella grande vasca delle ninfee in giardino, tra lo sbigottimento della servitù e la costernazione dei signori Faraggiana, suoi ospiti. Da allora venne tenuta occultata il più possibile, ma talvolta riusciva ad eludere la sorveglianza, uscendo furtivamente dalla villa. Per fortuna in paese non aveva combinato grandi guai. Fino a quel giorno di Maggio, però.

Quel giorno il personale della villa si era accorto che qualcosa doveva esser successo. La contessa era tornata a metà mattina, scarmigliata e furente, col vestito in disordine e senza una scarpa. Non erano riusciti a farle dire cosa le era accaduto ed era stato necessario somministrarle diverse gocce di laudano per riuscire a calmarla. Nei giorni successivi era venuto alla villa Faraggiana il delegato di Polizia per chiedere, come domande di routine, se avevano visto o sentito qualcosa, dato che il sentiero per Dagnente che avrebbe dovuto imboccare il povero prelato scomparso nel nulla passava proprio a ridosso del loro parco. In tutta fretta erano riusciti a trattenere la contessa in lavanderia e così si era potuto rispondere innocentemente alle domande. Ma il delegato era tornato il giorno dopo, per dire che era stata trovata una scarpa femminile di buona fattura sul sentiero, chiedendo se loro sapevano a chi potesse appartenere. Erano riusciti a evadere la domanda, ma la mattina seguente, sul far dell'alba, una carrozza con le tendine tirate era partita in tutta fretta dalla villa in direzione del Passo del Sempione.

La contessa Maria aveva ricevuto una congrua quantità di denaro contante ed era stata vivamente consigliata a non ritornare più in Italia, pena un possibile arresto per assassinio. Si trattava, è vero,  di paure esagerate, perché la Polizia non avrebbe potuto incriminare nessuno per un'uccisione di cui non v'era certezza alcuna. Infatti non era stato trovato alcun cadavere. Il buon monsignor Leonardi in teoria poteva essere ben vivo, scappato di nascosto all'estero per ragioni squisitamente personali, oppure poteva aver perso d'improvviso la memoria ed essersi messo a vagare senza meta per i  boschi e per le forre del Verbano. Comunque sia, conoscendo il temperamento e i trascorsi della contessa, si preferì andare sul sicuro e far perciò sparire al più presto la signora.

Non potendo rientrare a Parigi, per via della quantità dei debiti non ancora onorati, la contessa Maria si recò a Londra, dove ancora aveva delle conoscenze. Ma il clima era decisamente cambiato e le smanie rivoluzionarie non erano più di moda. Lei stessa non era più quella di prima. Garibaldi da Caprera non si fece più vivo, neppure con una lettera. Ben presto il denaro affidatole finì e lei non ottenne più credito. Qualcosa continuò a ricevere ancora dall'Italia, ma poco, non sufficiente a mantenere uno stile di vita consono alle sue abitudini. Era ormai solo una donna stravagante di mezza età, piuttosto esaltata, che si dichiarava contessa, anche se molti neppure le credevano. Anche i suoi entusiasmi risorgimentali gradualmente evaporarono e Maria si dedicò invece, col suo solito fervore, a raccogliere in casa animali abbandonati. Oltre a far sempre più debiti, sprofondando gradualmente sempre più nelle ristrettezze e poi nell'indigenza vera e propria. 

Negli anni '80 venne denunciata più volte dai suoi creditori e per un certo periodo venne persino messa in carcere. Il giudice le rifiutò comunque la richiesta che i suoi 15 cani e 17 gatti potessero condividerne la prigionia. Ormai la sua mente vacillava sempre di più e alla fine qualcuno avvisò del suo stato miserevole la famiglia in Italia, anche perché ormai divideva permanentemente la sua casa con ventitre gatti, quaranta capre, due vecchi cani decrepiti e un asino. Furono però i Faraggiana, che ormai avevano anche loro acquisito un titolo nobiliare, a farla tornare a loro spese, ricoverandola in un istituto per malati di mente, in pratica in un manicomio. Non però in quello di Novara, che era il più vicino a Meina, perché in territorio italiano la contessa Maria avrebbe forse potuto ancora dover rispondere di quell'increscioso episodio del '71. Fu invece scelto un manicomio svizzero, a Mendrisio sul lago di Lugano, anch'esso poco distante dal Lago Maggiore e dalla villa di Meina. A Mendrisio la contessa Maria Salasca Martini della Torre morì ultraottantenne nel 1912, completamente pazza.

Le preoccupazioni dei Faraggiana erano però del tutto infondate. L'inchiesta sulla strana sparizione del '71 era stata chiusa da tempo e nessuno in pratica se ne ricordava più. Il Prefetto di Novara aveva fatto eseguito alla lettera le istruzioni che aveva ricevuto dall'alto. Anche quando le voci che ormai giravano per tutto il paese, sullo scontro avvenuto tra l'eccentrica signora ospite alla villa e il prelato scomparso lungo il sentiero per Dagnente furono alla fine riportate alle autorità di polizia, il Prefetto si rifiutò di far riaprire il caso, anche se, come molti altri, probabilmente moriva dalla curiosità di sapere cosa fosse realmente successo. Quando poi la vecchia Bardella, la Povera Sbircia, aveva continuato ad andare in giro per il paese a raccontare ciò che aveva visto, fu sufficiente farla racchiudere in cella per una notte ad Arona, con l'accusa di ubriachezza molesta e vagabondaggio, per farla cadere per sempre in un silenzio di tomba. Nessuno ne aveva più parlato, nessun giornale locale aveva riportato la vicenda. Ben presto il ricordo di quella scomparsa svanì, anche perché nessun cadavere fu mai ritrovato. Il povero monsignor Leonardi era per davvero sparito nel nulla. A dire il vero, qualche anno più tardi i resti di una scarpa con una fibbia d'argento fu ritrovata alla foce del Rio Tiasca, il torrentello che corre tra i boschi sopra Meina attraverso una serie di strette forre scoscese e ripidi avvallamenti pieni di rovi, ma nessuno volle approfondire.

Ma a Torino, nelle stanze più segrete dei ministeri sabaudi non ancora trasferiti a Roma, la vicenda ricevette la dovuta  considerazione, anche se rimase sempre coperta da estrema riservatezza. Dopo una serie di caute indagini molto discrete, si poté appurare che monsignor Leonardi non era venuto a Meina per contattare segretamente la Duchessa di Genova da parte della Santa Sede. La lettera che portava era un innocente messaggio da parte di un noto prelato tedesco alla Segreteria di Stato Vaticana. Costui, avendo accidentalmente saputo che il Leonardi sarebbe partito il Lago Maggiore, gli aveva affidato una semplice lettera di personali convenevoli e di auguri per la Duchessa, sua conterranea, da lui conosciuta da molti anni. Il vero scopo del viaggio di monsignor Leonardi era stato invece di cercare di recuperare alcuni manoscritti inediti di Antonio Rosmini, che si diceva fossero conservati alla Villa Stampa di Lesa. Il Rosmini, infatti, intimo amico di Alessandro Manzoni, era stato solito a venire sovente in visita a Lesa da lui. Erano note le loro accese discussioni sulle idee moderniste e riformatrici del Rosmini, così invise alla corte di Pio IX a Roma, e correva voce che alcune bozze di un nuovo, importantissimo lavoro fossero rimaste alla morte del filosofo in mano del Manzoni, a villa Stampa. L'interesse per Villa Bolongaro a Stresa era invece dovuto solamente al fatto, che prima della Duchessa di Genova vi aveva abitato proprio il Rosmini. V'era quindi una possibilità, ancorché remota, che qualche sua carta vi fosse per caso rimasta dimenticata.

A quanto pareva, la Sacra Inquisizione Romana, cioè il Sant'Uffizio, voleva metter le mani su quei fogli, perché Rosmini e le sue dottrine erano a quei tempi in forte odore di eresia a Roma. Ma il conte Stampa, figlioccio del Manzoni, si era rifiutato di cederli. Il Leonardi era stato quindi mandato sul posto con l'incarico di cercare, con molta riservatezza, di subornare un certo servitore di Villa Stampa, nativo di Dagnente, e farseli consegnare dietro congruo compenso. Ma non aveva potuto neppure iniziare il suo compito per via dell'inspiegabile attacco improvviso della contessa sul sentiero per Dagnente. Costei, che quella mattina probabilmente era già eccitata e confusa di suo, trovandosi inaspettatamente davanti un prelato romano si era probabilmente infiammata e, ricordandosi della continua, feroce e vigliacca ostilità papalina verso il suo idolatrato Eroe dei Due Mondi, aveva forse voluto dargli, a suo modo, una lezione. Non di più. Atterrito dalla sciabola brandita da un'ululante Maria, l'esterrefatto monsignore doveva essersi dato a una fuga precipitosa tra quei boschi sconosciuti, sconvolto e chiedendo invano aiuto. Molto probabilmente, impedito anche dal suo abito talare, nel suo sbigottimento era caduto in modo rovinoso in una delle gole a strapiombo sul Rio Tiasca, morendovi. Non vedendolo più, la contessa, ancora ruggente d'indignazione, era poi rientrata alla villa, dove aveva potuto solo dare delle vaghe e confuse spiegazioni di quel suo stato quasi maniacale.

In fondo alla ravina il corpo del poveretto rimase nascosto alla vista di chiunque per via della folta e intricata vegetazione selvatica, per lo più di rovi spinosi. Venne poi gradatamente sepolto per sempre dal continuo accumularsi di pietrame e terriccio, proprio di quei torrenti. E' pur vero che dalla Segreteria di Stato papale furono avanzate delle segrete richieste  e dei memoriali alle autorità italiane per rintracciarlo, a cui il novello Regno d'Italia rispose solamente con gelidi sorrisi diplomatici. Dopo un certo tempo, dato che mons. Leonardi non aveva agganci particolarmente importanti alla Corte Pontificia e non apparteneva a una famiglia particolarmente influente, il poveretto fu dato per morto e in Vaticano fu celebrata una solenne e commovente messa di suffragio per la sua anima immortale. Dopo di che ci si dimenticò di lui e del suo caso.

Le tre ville

Ma localmente il ricordo rimase, specialmente tra la servitù della Villa Faraggiana. Alcune cameriere cominciarono a preoccuparsi, spaventate perché a loro avviso al calar della notte spesso si sentivano lamenti strani in fondo al parco, lungo il muro di cinta, specialmente con la luna piena, e si intravedeva scivolare tra gli alberi una preoccupante sagoma pallescente. Invano fu spiegato loro che con molta probabilità si trattava solo dei versi di qualche gufo notturno e che il fantasma che credevano aver visto altro non doveva esser che il gioco della luce lunare tra le fronde. Le donne tuttavia si convinsero sempre più che fosse l'anima gemente del povero monsignore, che invano chiedeva d'aver una cristiana sepoltura. Altri si erano convinti che si trattasse invece dello spirito della ormai scomparsa "contessa matta" - anche se a quel tempo non era ancora morta, cosa che a Meina non si sapeva neppure -  venuta a espiare gemendo il suo sacrilego delitto.

Per anni la servitù di Villa Faraggiana evitò di trovarsi di notte nel retro del grande parco, mentre molti dei paesani, a cui la notizia era in parte filtrata, se dovevano percorrere ad ora tarda il sentiero per Dagnente, affrettavano il passo lungo il muro di cinta di Villa Faraggiana, sempre segnandosi e mormorando a mezza bocca un "Requiem aeternam".   Poi con il passare degli anni anche queste credenze si affievolirono e a tutt'oggi sono ben pochi coloro che ne hanno conservata una sia pur vaga memoria.

Fregino decorativo

P.S.  Una noterellina aggiuntiva: a Mendrisio, dove era stata ricoverata la contessa Maria, era poi venuto a rifugiarsi anche il senatore Luigi Pissavini, già Prefetto di Novara, proprio quello che su ordine tassativo del Ministero aveva insabbiato così bene, quasi con ferocia, l'inchiesta sulla scomparsa del Leonardi e sulle possibili responsabilità della contessa Salasco Martini, curando poi di cancellarne ogni traccia.
Il Pissavini era infatti stato scoperto in flagrante mentre, coi pantaloni abbassati, compiva atti indecenti con due ragazzi dietro a una nota sala di bigliardo a Novara. Era sfuggito all'arresto riparando in Svizzera, proprio mentre i suoi colleghi senatori l'avevano giudicato in sezione plenaria, espellendolo solennemente dal Senato. E' stato quello il primo - e, ahimé, finora l'unico - caso di espulsione per indegnità dal Senato Italiano. Il Pissavini rimase poi a vivere tra Lugano e Mendrisio finché morì. Ma questa è tutta un'altra storia.

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